Il PD ha il primato nel salotto delle città. La sinistra si è trasformata nella miglior garanzia dello status quo

Corriere della Sera - Il PD da il primato nel salotto delle città
Corriere della Sera del 7 giugno 2016

Il PD tiene bene nelle aree borghesi ed eleganti delle città ma perde nelle periferie. In sostanza il PD, erede del vecchio PC, dialoga con la borghesia, i professionisti, col mondo dei circoli e dei salotti ma perde nelle periferie e nei quartieri più difficili.

Scrive Matteo Pucciarelli su Micromega

Un tempo era naturale, ovvio, scontato, pacifico: in periferia, lontani dai lustrini del centro, dalle vie eleganti e dai negozi griffati, lontani dai teatri e dai palazzi borghesi con il portiere, si votava soprattutto a sinistra.

Non per moda né per protesta: solo perché la sinistra rispondeva, o diceva di rispondere, in primis alle esigenze di quelli che, cristianamente, si chiamerebbero gli umili.

Perché l’essenza stessa della sinistra era quella di lottare contro le disuguaglianze, il che comportava incentrare la propria politica su criteri redistributivi.

Brutalizzando: “togliere al centro” per “distribuire alle periferie”. Così ha continuato ad essere fino ad almeno venti anni fa, e ad ogni elezione i numeri più o meno confermavano la tradizione: generalmente nei quartieri chic si votava a “destra”, in quelli popolari a “sinistra”.

E invece lentamente le cose hanno cominciato a cambiare.

Perché? Com’è possibile che il mondo funzioni alla rovescia?

Spesso i comunisti di ieri sono oggi i migliori alfieri del neoliberismo di oggi.

In mezzo a questo dilemma irrisolto c’è stato un mondo che è andato avanti (o forse indietro) e che non ha sanato, anzi ha acuito, le disuguaglianze.

La forbice della ricchezza si è allargata e a dirlo sono i numeri e gli studi di svariati economisti. La distanza tra “centro” e “periferia” è aumentata. E in questo contesto la sinistra, senza saperlo o forse sì, si è trasformata nella miglior garanzia dello status quo: perché quella maggioritaria ha sposato in pieno il modello economico che fomenta quella disuguaglianza.

Leggi l’articolo integrale di Matteo Pucciarelli su Micromega.

Per Pietro Ichino (senatore PD) il Jobs act si applica anche negli uffici pubblici

Corriere della Sera del 10 giugno 2016. Ichino
Corriere della Sera del 10 giugno 2016

Per quasi trentacinque anni, l’articolo 18 della Legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) ha rappresentato il cardine della disciplina limitativa dei licenziamenti e ha costituito in definitiva il più efficace riconoscimento e la più ampia garanzia a livello individuale dei diritti e delle libertà enunciate dallo Statuto dei lavoratori.

In sostanza ogni volta che il Giudice avesse ritenuto illegittimo un licenziamento, la sanzione prevista era una sola ed era la reintegrazione nel posto di lavoro (nel caso di imprese con più di 15 dipendenti).

Come è noto, la norma ha subito una pesante rivisitazione per opera delle riforma del 2012 (Monti-Fornero): mentre prima di tale legge, infatti, il principio di stabilità del rapporto di lavoro era tutelato in ogni caso, ad oggi la norma prevede quattro differenti regimi di tutela che si applicano gradatamente a seconda della gravità dei vizi che inficiano il licenziamento.

Il progressivo depotenziamento delle tutele offerte ai lavoratori in caso di licenziamento ingiusto ha di recente raggiunto il suo culmine, con l’approvazione del cd. jobs act.

Dopo la sua approvazione il reintegro nel posto di lavoro è possibile solo per i licenziamenti nulli o discriminatori, quelli decisi, ad esempio, per motivi di religione o di razza. E anche per quelli disciplinari ma solo se in tribunale viene provata l’insussistenza del fatto contestato dall’azienda. Negli altri casi c’è solo un indennizzo economico: 2 mesi di stipendio per ogni anno di lavoro, con un minimo di 4 e un massimo di 24 mensilità.

Quindi i politici, piuttosto che ritenere ingiusto per tutti lavoratori (pubblici e privati) il mancato reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo (il jobs act ha previsto solo un piccolo indennizzo da 4 a 25 mensilità) vorrebbero estendere la precarizzazione alla categoria dei dipendenti pubblici.