Da mercoledì entra in vigore il nuovo procedimento disciplinare della riforma Madia

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Il Sole 24 Ore dell’11 luglio 2016. Per scaricare l’articolo dal sito dell’Ars, clicca sopra l’immagine

Per gli assenteisti inguaribili della Pubblica amministrazione domani è l’ultimo giorno per farsi cogliere sul fatto e imboccare la strada ordinaria del procedimento disciplinare; da mercoledì entrano infatti in vigore le regole scritte nel decreto attuativo della riforma Madia.

Finora, però, i licenziamenti per assenteismo sono stati limitati a poche decine di casi, e per cambiare registro il nuovo decreto Madia punta su due strumenti: calendario ultrarapido e sanzioni pesanti per i dirigenti che si girano dall’altra parte.

Quando un assenteista è colto sul fatto, oppure viene filmato mentre timbra l’entrata e poi
snobba la scrivania, dovrà scattare un meccanismo che porta alla sospensione in 48 ore e al contraddittorio entro 15 giorni per arrivare al licenziamento, ovviamente se tutto è confermato, nel giro di un mese dal fatto. Entro 15 giorni deve partire anche la segnalazione alle procure di Repubblica e Corte dei conti, e i magistrati contabili devono inviare l’invito a dedurre entro tre mesi per il danno erariale comprensivo di danno all’immagine (minimo sei mesi di stipendio, ma il conto cresce con la «rilevanza mediatica» del caso), e sospensione, licenziamento e segnalazione all’autorità giudiziaria riguarderanno anche il dirigente che non fa partire subito il procedimento disciplinare.

Referendum costituzionale. Sì avanti di un soffio ma in netto calo

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Repubblica dell’11 luglio 2016. Per scaricare l’articolo dal sito dell’Ars, clicca sopra l’immagine

Referendum costituzionale. In crescita i No e gli indecisi che diventano un terzo degli elettori.

Il referendum sulla riforma costituzionale, che si svolgerà (probabilmente) nel prossimo autunno, ha cambiato e sta, progressivamente, cambiando di significato. Di contenuto.

In origine, mirava a dare legittimazione sociale alla riforma costituzionale che si propone di superare il bicameralismo paritario.

La riforma ha goduto, all’inizio, di un largo consenso popolare. Così Matteo Renzi l’ha utilizzata per altri fini, oltre a quello originale e originario. In primo luogo: per caratterizzare l’azione del suo governo. Un governo “riformatore”. In secondo luogo, per rafforzarne il sostegno, attirando settori di elettorato estranei e lontani. Non solo al PD, ma alla politica.

Il ridimensionamento dei poteri del Senato e del numero di senatori, infatti, piace a molti italiani. Non solo per ragioni di “rendimento istituzionale”. Ma, ancor più, per ragioni “antipolitiche”. Perché tagliare una Camera e un buon numero di senatori, risparmiare sui “costi” dei “politici”: intercetta la diffidenza diffusa verso il “Palazzo”.

Annunciando l’intenzione di dimettersi, nel caso la riforma non venisse approvata, Renzi ha ulteriormente ri-definito il significato della consultazione. L’ha trasformata in un referendum (secondo Gianfranco Pasquino: un plebiscito) sul proprio governo e su se stesso. In questo modo il premier ha inteso non solo esercitare pressione sugli elettori. Ma “rimediare” al deficit di legittimazione che lo angustia.

In questo modo, però, come ho già scritto, Renzi ha politicizzato un referendum antipolitico. E ne ha eroso, in parte contraddetto, le ragioni che gli garantivano consenso.

Italicum e referendum C’eravamo tanto sbagliati

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Il Fatto Quotidiano dell’11 luglio 2016. Per scaricare l’articolo dal sito dell’Ars, clicca sopra l’immagine

L’idillio tra il premier e la grande stampa è finito, ora Matteo apre alle modifiche che rifiutava. E non sogna più di trasformare in plebiscito il voto sulla Carta.