Sicilia, allarme dei Cobas: “Macchina regionale a rischio caos, duemila dipendenti in meno nel 2027”

Oltre 11mila gli attuali lavoratori dell’amministrazione. Secondo i sindacati di base tra quattro anni saranno la metà rispetto al 2013, a incidere il blocco delle assunzioni. Oggi incontro con l’assessore alla Funzione pubblica Messina

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Sicilia: 2.000 dipendenti regionali in meno nel 2027

Sicilia: 2.000 dipendenti regionali in meno nel 2027 Report Cobas/Codir, impiegati quasi dimezzati rispetto al 2013 (ANSA) – PALERMO, 31 MAG –

La Regione perderà più di duemila dipendenti entro la fine della legislatura. Lo sostiene il Cobas/Codir in un report diffuso a poche ore dall’incontro, previsto per oggi alle 12, con l’assessore alla Funzione pubblica Andrea Messina. Ricevuta nei giorni scorsi la convocazione per discutere del rinnovo contrattuale, il sindacato aveva sospeso la manifestazione di protesta indetta per il 24 maggio scorso davanti al Palazzo d’Orleans. La richiesta del Cobas/Codir al governo Schifani è di procedere con la riclassificazione del personale “per adeguarlo alle reali necessità della macchina amministrativa”. Il sindacato maggiormente rappresentativo tra gli impiegati regionali evidenzia che i vuoti negli organici sono più marcati fra istruttori, funzionari e dirigenti. Gli istruttori (diplomati) erano 4.979 nel 2013. Adesso in servizio sono 2.900 e sono destinati a scendere fino 2.050 nel 2027. Stessa progressione per i funzionari (laureati) dai 4.965 del 2013, ai 2.800 di oggi e ai 2.100 previsti nel 2027. Ma i vuoti maggiori, in proporzione, riguardano i dirigenti (laureati). Nel 2013 erano 1.805. Oggi negli uffici ce ne sono 740. Nel 2027 saranno solo 370. La previsione del sindacato si basa sul pensionamento per vecchiaia a 67 anni e non tiene conto di eventuali fuoriuscite anticipate. Per il Cobas-Codir si tratta di un quasi dimezzamento degli organici. Da 16.894 dipendenti del 2013 ai 9.190 del 2027. Oggi gli impiegati regionali sono 11.378. Progressivamente verranno a mancare le figure apicali che garantiscono l’organizzazione degli uffici. Per Dario Matranga e Marcello Minio, segretari generali del Cobas/Codir, è necessaria “l’immediata riorganizzazione del personale in un nuovo sistema classificatorio in cui vengano cancellate le qualifiche obsolete e si punti molto sulla valorizzazione delle competenze e sulle alte professionalità, partendo da un bilancio delle competenze, attraverso una mappatura aggiornata delle reali funzioni svolte quotidianamente dai lavoratori che nella maggior parte dei casi travalicano le formali categorie di appartenenza”. Ad incidere, scrive il sindacato, “è il sostanziale blocco delle assunzioni per altri nove anni previsto dall’accordo Stato-Regione, siglato dal precedente governo Musumeci”. (ANSA)


Dopo il flop dei concorsi pubblici scende in campo il presidente dell’Aran Naddeo: gli stipendi dei dipendenti pubblici sono più alti del privato. Venghino signori, venghino

Tratto da tecnicadellascuola.it

Chi lavora per lo Stato a livelli di funzionario guadagna in media quasi cento euro in più al mese di un collega del privato: a sostenerlo è Antonio Naddeo, presidente dell’Aran, l’Agenzia per la contrattazione nel pubblico impiego. In un intervento tenuto in apertura del Forum Pa 2023, commentando il nuovo rapporto semestrale dell’Aran sulle retribuzioni dei pubblici dipendenti, elaborati su dati della Ragioneria dello Stato, Naddeo ha sottolineato che i funzionari pubblici guadagnano in media mille euro l’anno in più rispetto ai lavoratori privati.

Secondo il presidente dell’Aran, riporta l’Ansa, “c’è uno storico equivoco sul tema delle retribuzioni che blocca le aspirazioni dei giovani, ma lo voglio dire con chiarezza: non è sempre vero che nel pubblico si guadagna meno che nel privato. Nel 2021 – ha ricordato Naddeo – la retribuzione complessiva media annuale lorda per i funzionari pubblici (ministeri, funzioni locali e agenzie fiscali) è stata di 31,7 mila euro, nel privato gli impiegati con funzioni sovrapponibili hanno guadagnato in media 30,8 mila euro. Qual è l’amministrazione privata che a un primo impiego paga così?”.

“In pratica, un funzionario dei ministeri ha percepito tredici mensilità con uno stipendio medio pari a 1.816 euro netti, nelle funzioni locali lo stipendio medio netto è stato di 1.852 euro, mentre, mentre chi opera nelle agenzie fiscali ha potuto contare su una media di 1.951 euro al mese. Questi dati – ha concluso – non fotografano una situazione immutabile, perché si sta concretamente discutendo per migliorare ancora la situazione, premiando il merito e potenziando i percorsi formativi”.

Secondo Naddeo, che ha auspicato l’istituzione dell’open day della pubblica amministrazione per migliorarne l’attrattività, “oggi non esiste solo il tema delle retribuzioni, ve ne sono altri che possono aiutare ad attrarre i giovani: welfare aziendale, conciliazione tempi vita-lavoro, smartworking e ancora tanto altro. L’obiettivo è valorizzare le persone, ciascuna con il suo ruolo, che costituiscono l’architrave di ogni amministrazione”.

Il problema della scarsa attrattività del lavoro pubblico comunque esiste. Ed è anche molto presente: leggendo i dati di una ricerca, presentata sempre al Forum Pa, nell’ultimo biennio si sono presentati ai concorsi pubblici solo 40 candidati per ogni posto a fronte dei 200 nel biennio precedente mentre tra i vincitori due su dieci rinunciano al posto, percentuale che sale al 50% per i contratti a termine.

Nel complesso, i lavoratori pubblici sono aumentati nel 2022 dello 0,8% arrivando a quota 3.266.180, al livello più alto dell’ultimo decennio.

Nei prossimi dieci anni però andranno in pensione circa un milione di lavoratori e il reclutamento di personale adeguato e motivato sarà centrale per la pubblica amministrazione a partire dalla realizzazione del Pnrr.

L’obiettivo per il 2023 – ha detto il ministro per la pubblica amministrazione, Paolo Zangrillo – è l’entrata nel settore di 170mila persone.

Nel comparto l’età media è ormai di 50 anni, 6,5 anni in media in più rispetto al 2001. Il personale con 55 anni e oltre costituisce il 36,7% del totale e quello con meno di 35 anni è ridotto a circa il 10%, meno della metà rispetto al 2001. “Se vogliamo far diventare la pubblica amministrazione il più grande employer del Paese, ha aggiunto Zangrillo – occorre mettere in campo una cosiddetta strategia di employer branding, che pensi al futuro dipendente come una risorsa da attrarre. Dobbiamo fare in modo che la PA diventi una grande opportunità per tutti i giovani, soprattutto per quelli talentuosi che spesso vedono nel pubblico un posto polveroso e poco dinamico, dove le competenze invecchiano velocemente, la carriera è un miraggio e si rischia di rimanere intrappolati”.

L’aumento delle selezioni e la possibilità di scelta per i candidati di più posizioni, spiega la ricerca e riporta ancora l’Ansa, spinge sempre meno persone ad accettare il trasferimento al Nord, dove l’affitto impegna quasi il 50% dello stipendio di un laureato neoassunto, contro il 18-23% in una città metropolitana del Sud.

Nel 2021 gli assunti per concorso sono stati oltre 150mila, ma l’8,6% era già un dipendente pubblico. Nel 2022 gli assunti sono stati circa 157mila.

“L’indagine evidenzia per il settore pubblico alcuni effetti della trasformazione del mercato del lavoro già emersa nel privato – ha detto Carlo Mochi Sismondi, Presidente di Fpa – da un lato, oggi i lavoratori danno meno importanza al ‘posto fisso’ in favore di aspetti come benessere, motivazione, formazione o lavoro agile. Dall’altro, in una scarsità di personale qualificato, si evidenzia una nuova competizione tra pubblico e privato sui profili tecnici e tra amministrazioni, a causa dell’ingorgo di concorsi”.

E se nel 2022 cresce la spesa totale per i redditi da lavoro dipendente nella pubblica amministrazione, circa 187 miliardi (contro i 177 del 2021), è invece in calo la spesa pro-capite per il reddito dei dipendenti (calcolata a prezzi costanti del 2022, depurata dall’inflazione) che risulta la più bassa dal 2015 con 57,2mila euro, rispetto ai 59mila euro del 2021.


Perché il posto pubblico non attira più. Dipendenti mal pagati (stipendi tra i 1400 e i 1500 € netti), carriere bloccate e buonuscita erogata, bene che vada, dopo i 68 anni. Flop concorso per il sud. Ora con le risorse inutilizzate i Comuni assumeranno esperti a chiamata diretta

Fuga dal pubblico impiego: il 29% rinuncia al posto per gli “stipendi troppo bassi”

Fuga dal pubblico impiego: il 29% rinuncia al posto per gli “stipendi troppo bassi”

C’è chi rinuncia direttamente al posto e chi prende tempo rimandando la firma del contratto, oppure chiede il trasferimento dopo aver accettato. Uno stipendio di 1500-1600 euro al mese, pur con la garanzia del posto fisso, non è attraente per chi (magari con figli al seguito) deve trasferirsi a Milano o in altre città lombarde dove il costo della vita, e soprattutto della casa, è alle stelle.

La Commissione UE boccia la Riforma Fiscale italiana. Aumenta i rischi legati all’equità, inoltre la riduzione del numero di scaglioni irpef rischia di compromettere la progressività del sistema fiscale

Tratto da lentepubblica.it

All’interno del pacchetto di primavera del Semestre Europeo arriva la bocciatura della Commissione UE alla Riforma Fiscale italiana: aumenterebbe i rischi legati all’equità.


Come di consueto ogni anno in questo periodo viene stilato il pacchetto di primavera del Semestre europeo, una sorta di guida formulata dall’esecutivo comunitario per la politica fiscale degli Stati membri.

Il pacchetto di quest’anno ha l’obiettivo di costruire un’economia solida e adeguata alle esigenze future, che garantisca competitività e prosperità a lungo termine per tutti in un contesto geopolitico difficile.

Scopriamo dunque di più sulle indicazioni fornite dalla UE e soprattutto sul punto di vista adottato sulla situazione italiana.

La relazione della Commissione UE

La Commissione UE ha preparato una relazione a norma dell’articolo 126, paragrafo 3, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea per 16 Stati membri. Scopo della relazione è valutare la conformità degli Stati membri ai criteri del disavanzo e del debito previsti dal trattato.

La relazione rileva che Belgio, Bulgaria, Repubblica Ceca, Germania, Estonia, Spagna, Francia, Italia, Lettonia, Ungheria, Malta, Polonia, Slovenia e Slovacchia non soddisfano il criterio del disavanzo.

Tenendo conto di tutti i fattori significativi, la relazione rileva che Francia, Italia e Finlandia non soddisfano il criterio del debito. La Commissione ritiene tuttavia che il rispetto del parametro per la riduzione del debito non sia giustificato dalle condizioni economiche prevalenti.

Il quadro economico-fiscale italiano

Tra i paesi con i conti non del tutto in ordine la lente d’ingrandimnto dell’UE si sofferma in particolare sulla Grecia e sull’Italia, continuano a presentare squilibri eccessivi. Tuttavia le loro vulnerabilità sembrano diminuire, anche grazie ai progressi nelle politiche.

L’inflazione è destinata a rallentare quest’anno sulla scia del calo dei prezzi dell’energia che si è trasferito ai prezzi dei beni industriali, dei generi alimentari e infine dei servizi. Questa tendenza al ribasso dovrebbe continuare nell’orizzonte di previsione.

Le entrate tributarie hanno continuato a beneficiare della forte crescita del PIL nominale e dell’impatto dei passati accantonamenti volti a rafforzare la riscossione, che hanno più che compensato la riduzione del cuneo fiscale sul lavoro. Nonostante il rinnovo dei contratti salariali pubblici per il 2019-21, la spesa primaria totale è diminuita di circa l’1,4% del PIL poiché i trasferimenti sociali sono aumentati meno del PIL nominale e la spesa in conto capitale è diminuita.

Le imposte correnti dovrebbero continuare a crescere, nonostante gli ulteriori tagli al cuneo fiscale sul lavoro per i redditi bassi e medi.

Nel 2024, il disavanzo pubblico dovrebbe raggiungere il 3,7% del PIL. La completa eliminazione delle misure di sostegno all’energia e la minore spesa per i consumi intermedi più che compensano l’aumento della spesa pensionistica.

Al contrario, la spesa per interessi dovrebbe aumentare leggermente al 4,1% del PIL principalmente a seguito di tassi di interesse più elevati all’emissione, mentre le imposte correnti dovrebbero crescere più lentamente del PIL nominale.

Le criticità della Riforma Fiscale italiana secondo la Commissione UE

Questa proiezione, secondo la Commissione, non tiene comunque conto dei potenziali tagli alla pressione fiscale, ampiamente segnalati nel Programma di Stabilità dell’Italia ma non ancora sufficientemente specificati.

Secondo l’UE la recente proposta di riforma del sistema fiscale aumenta i rischi legati all’equità. La riduzione del numero di scaglioni dell’imposta sul reddito delle persone fisiche rischia di compromettere la progressività del sistema fiscale.

Sarà pertanto fondamentale mantenere la natura progressiva del sistema fiscale, ridurre la complessità, aumentare gli incentivi al lavoro e intensificare gli sforzi passati per combattere l’evasione fiscale.

Inoltre l’Italia dovrà garantire che le misure di riscossione volte a riorganizzare alcune categorie di addebiti e sanzioni fiscali non indeboliscano gli incentivi alla conformità fiscale.

Si raccomanda infine all’Italia di garantire una governance efficace e rafforzare la capacità amministrativa, in particolare a livello subnazionale, per consentire un’attuazione continua, rapida e costante del Piano per la ripresa e la resilienza.

Tfs, il clamoroso dietrofront dell’Inps: si può pagare subito. Attesa per la Consulta

Tratto da PAmagazine

“In Italia nulla è stabile, fuorché il provvisorio”, scriveva Giuseppe Prezzolini nel suo impietoso Codice della vita italiana. Era il 1921, ma dopo un secolo l’aforisma è ancora valido dimostrando che anche i difetti nazionali hanno una loro, granitica, stabilità. Nel 2011, per esempio, nella spasmodica ricerca di soluzioni che potessero tranquillizzare i mercati e raffreddare lo spread, che stava portando il costo del debito pubblico oltre i limiti della sostenibilità, il governo Monti buttò nel calderone delle misure emergenziali (oltre all’Imu e alla riforma Fornero delle pensioni) anche una stretta sui dipendenti pubblici che mise insieme il blocco degli aumenti salariali e delle nuove assunzioni con lo slittamento delle buonuscite, che da allora vengono pagate, per lo più a rate, solo due anni dopo l’avvenuto collocamento a riposo. Intervallo di tempo, però, che decorre solo se è già stata raggiunta l’età per la pensione di vecchiaia (attualmente 67 anni), perché se l’uscita dai ranghi pubblici avviene prima del fatidico compleanno, come nel caso dei prepensionamenti, per vedere qualche soldo del Trattamento di fine servizio (Tfs), il lavoratore deve comunque attendere i 67 anni e poi cominciare il conto alla rovescia, il che fa sì che, a seconda dell’età del pensionato pubblico, l’attesa può variare dai 2 ai 7 anni.

Si dirà che erano tempi difficili e il rischio di default dei conti pubblici appariva assai concreto, così da non poter stare troppo a sottilizzare sulle scelte compiute. I più le hanno subite con rassegnazione, in attesa che la buriana passasse e si potesse tornare alla normalità. E in effetti superata la fase più calda, qualche attenuazione nel rigore c’è anche stata. Nel 2013 il governo di Enrico Letta ha tolto l’Imu sulla prima casa e anche la legge Fornero è stata qui e là corretta (dalle misure a favore degli esodati fino alla quota 100 o alla Opzione donna). Pure il bonus degli 80 euro di Renzi o il reddito di cittadinanza, in qualche modo, sono serviti ad ammorbidire quella stretta emergenziale di fine 2011, che però, a giudizio dell’attuale e di tutti gli altri governi che lo hanno preceduto, non può essere attenuata se in ballo ci sono i soldi di lavoratori e pensionati pubblici. Per questa categoria l’emergenza non è mai passata.

Allentare i cordoni significa mettere a rischio i conti pubblici. Altre linee di difesa per giustificare la tetragona determinazione nel congelamento del Tfs, del resto, non ci sono. Che un’attesa di sette anni per incassare il Tfs sia una discriminazione, un vulnus nei diritti di un lavoratore pubblico (visto che un dipendente privato andato in pensione passa immediatamente all’incasso del suo Tfr), sembra più un’ovvietà indiscutibile che questione sui cui dibattere, tant’è che la linea di difesa dell’avvocatura di Stato in questi anni non si è mai veramente attestata su elementi di diritto, ma ancora oggi, come ieri, si basa solo sulla sostenibilità della spesa per le casse pubbliche.

Una linea messa già in discussione in larga parte dalla Corte Costituzionale, che nel 2019, chiamata a pronunciarsi sul caso di un prepensionato, specificò che il differimento del Tfs è accettabile solo in caso di uscita anticipata dal lavoro. L’avvertimento implicito lanciato dalla Consulta era chiaro: se il dubbio di incostituzionalità venisse sollevato da chi è andato in pensione a 67 anni, la sentenza potrebbe essere diversa. Ed è esattamente di questo che si dibatte in questi giorni, ora che la Corte Costituzionale è chiamata ad esaminare i ricorsi riguardanti alcuni pensionati di vecchiaia. E infatti per evitare un pronunciamento avverso gli avvocati dello Stato e dell’Inps non hanno potuto fare altro, durante l’udienza dello scorso 9 maggio, che alzare ancora di più l’allarme sui conti pubblici, avvertendo i giudici che se venisse annullato il differimento della buona uscita per i pensionati pubblici l’istituto di previdenza dovrebbe spendere altri 14 miliardi di euro già nell’anno in corso.

Un allarme, però, che è stato clamorosamente smentito nemmeno una settimana dopo dal presidente uscente dell’Inps, Pasquale Tridico, che in un incontro di commiato con la stampa ha definito quei costi “alla portata”, visti anche i buoni risultati d’esercizio dell’istituto. Non solo, Tridico ha aggiunto che si tratta di spendere qualcosa “che è già entrato nelle nostre casse”, sarebbe in sostanza un’anticipazione di spesa. E qui il punto si fa delicato, perché il presidente rimosso può anche aver voluto creare con le sue parole un problema al successore, ma al netto di qualsiasi dietrologia resta l’essenza del discorso: non anticipare quella spesa, anzi posticiparla, significa trattenere in cassa una cifra che è stata guadagnata dal lavoratore come corrispettivo di un lavoro già corrisposto, perché il Tfs, come il Tfr per i lavoratori privati, è salario differito. Con l’aggravante che essersi tenuti quei soldi per anni (come già detto in alcuni casi persino per sette anni), non ha fatto fare finora una gran figura allo Stato (per usare un eufemismo), ma almeno l’inflazione nell’ultimo decennio era praticamente ferma e quindi la buonuscita arrivava tardi, ma intatta. Adesso che l’inflazione galoppa tra il 7 e l’8 %, non erogare quei fondi significa tagliarli ogni anno di quella percentuale, in altre parole pagare sempre meno un lavoro di cui si è già goduto. La Corte dirà se tutto ciò è incostituzionale, ma il buonsenso ci ha già fatto capire che è ingiusto.

Statali. In dubbio il prossimo rinnovo contrattuale. Aumenti una tantum anche nel 2024

Tratto da PAmagazine

Per i dipendenti pubblici probabilmente, sta iniziando una nuova era. Quella degli aumenti “spot”. Anche per il 2024 l’ipotesi che si fa strada è quella di confermare lo stanziamento di un miliardo (più altri 800 milioni per enti locali e sanità), che ha consentito un aumento per tutto quest’anno dell’1,5 per cento per tredici mensilità. A far capire che l’ipotesi più probabile sia questa, è stata la relazione sul coordinamento della finanza pubblica presentata dalla Corte dei Conti. “In attesa dei fondi per il rinnovo dei contratti scaduti nel 2021”, si legge nel documento, “a fine anno si esaurisce l’una tantum da un miliardo (più 800 milioni negli enti locali e in sanità) che, per il solo 2023, ha offerto un aumento lineare dell’1,5 per cento agli stipendi nella PA. A fronte delle elevate stime previste per il recupero dell’inflazione e del persistere della dinamica dei prezzi core oltre le attese”, dicono i magistrati contabili, “appare difficile non prevederne l’estensione”.

I FATTI DIETRO LE PAROLE

La questione è abbastanza semplice. Nelle settimane scorse il ministro per la Pubblica amministrazione, Paolo Zangrillo, aveva spiegato che per rinnovare i contratti pubblici scaduti ormai dal 2021, sarebbero stati necessari almeno 7-8 miliardi di euro. E per lasciare una porta aperta, aveva anche fatto inserire una frase all’interno dell’ultimo Def, il documento di economia e finanza, per dare una corsia preferenziale ai fondi per il pubblico impiego. Man mano però che il tempo passa, la strada appare sempre più in salita. Dal ministro del Tesoro si moltiplicano gli appelli a tenere ben stretti i cordoni della borsa, anche perché il prossimo anno tornerà il Patto di Stabilità e se l’Italia non rispetterà i parametri, rischierà di finire sotto una procedura d’infrazione da parte di Bruxelles. In quest’ottica quella del 2024 inizia a conformarsi coma una manovra di “proroghe”. Proroga per il taglio del cuneo fiscale (che da solo vale 10 miliardi), proroga per Quota 103 (il pensionamento con 62 anni e 41 di contributi), proroga per l’una tantum per i dipendenti pubblici.

L’ARAN E LA CAMPAGNA SUGLI STIPENDI

Probabilmente non è un caso che l’Aran abbia avviato una sorta di “operazione verità”, dal suo punto di vista ovviamente, sui livelli degli stipendi pubblici. La tesi sostenuta è che i funzionari pubblici, con i loro 31.700 euro di stipendio annuo medio, guadagnino più della media degli impiegati privati e non siano nemmeno tanto lontani dai settori storicamente più “appetibili” per i lavoratori, come quello bancario o energetico. L’altro elemento è che i dipendenti pubblici in questi anni avrebbero avuto aumenti più consistenti dei loro pari grado privati. Al di là dei dati, l’impressione è un tentativo di iniziare a preparare il terreno per l’amara pillola di un rinvio della contrattazione che sarà difficile finanziare nella prossima manovra. Dunque resterà, come dice la Corte dei Conti, solo la “una tantum” anche per il 2024.

I MINI AUMENTI

Di quanti soldi parliamo per i lavoratori? Praticamente nulla, visto che fino a dicembre la una tantum sarà pagata. In realtà se venisse meno, e non ci fosse il rinnovo del contratto, i dipendenti pubblici soffrirebbero dal primo gennaio prossimo un taglio dello stipendio. I calcoli sono quelli della Ragioneria generale dello Stato. Per esempio, a un dirigente di prima fascia perderebbe 66,80 euro al mese, mentre per uno di seconda fascia si tratterebbe di circa 52 euro. La busta paga di un ispettore generale subirebbe un decremento di 44,72 euro. Un funzionario di terza area, fascia sette, avrebbe 43,91 euro meno, che diventano poco più di 29 per un funzionario di terza area in fascia uno. Per quanto riguarda le forze dell’ordine e i militari: un commissario capo della Polizia di Stato riceverebbe in ciascuna delle tredici mensilità 34,46 euro in meno, mentre un agente si fermerebbe a 24,10.

Pa, arriva l’emendamento al Dl per equiparare Tfs a Tfr: con il via libera ok ai prestiti

Due emendamenti al decreto legge recante disposizioni urgenti per il rafforzamento della capacità delle amministrazioni potrebbero porre fine definitivamente a una disparità.

L’eventuale via libera agli emendamenti, infatti, permetterebbe di ottenere un prestito in banca garantito dal Trattamento di fine servizio (Tfs). Una misura, questa, che potrebbe riguardare circa 3 milioni di dipendenti pubblici che finora avevano a loro disposizione solo la possibilità della cessione del quinto a tassi agevolati.

Il 31 maggio il Cobas-Codir chiederà al governo regionale: “ADESSO UN’OPERAZIONE VERITÀ SUL PERSONALE”

Il governo Schifani, aprendo la stagione del confronto con le organizzazioni sindacali insieme all’assessore alla Funzione pubblica Andrea Messina, ha dimostrato disponibilità al confronto e, come già da noi comunicato, anche per questo il COBAS-CODIR ha sospeso la manifestazione del 24 maggio.
L’assessore Andrea Messina ha convocato, infatti, le organizzazioni sindacali per il giorno 31 maggio al fine di riaprire le trattative sul rinnovo economico del CCRL e sulla riclassificazione in un nuovo sistema classificatorio. Una fase di verifica, però, sulla reale volontà del governo durante la quale informeremo i lavoratori su tutte le evoluzioni.
Nell’auspicio che, nel frattempo, venga anche nominato il Comitato direttivo dell’Aran Sicilia e il suo presidente, durante l’incontro del 31 chiederemo preliminarmente un adeguamento previsionale degli aumenti economici contrattuali a partire dal 2019 in linea, almeno, con quelli erogati ai più fortunati dipendenti ministeriali delle Funzioni Centrali. Ci riferiremo anche al profilo dell’indennità di amministrazione, in cui i colleghi ministeriali sono stati gratificati, ope legis, da un adeguamento al rialzo di detta indennità che per i regionali si tradurrebbe in aumenti fino a 139 euro mensili.
Il COBAS-CODIR chiederà anche l’avvio di un’”OPERAZIONE VERITÀ” sul personale della Regione siciliana. Sono 20 anni, infatti, che la Regione non provvede a fare un “bilancio delle competenze” di tutto il personale regionale, coinvolgendo tutti gli uffici regionali per eseguire una mappatura delle reali funzioni svolte quotidianamente da tutti i lavoratori al di là delle categorie di appartenenza.
Sarà, così, possibile verificare la reale necessità organizzativa della macchina amministrativa, non più rinviabile, per procedere a un nuovo sistema classificatorio che coinvolga tutti i lavoratori: ridisegnando la Regione e consentendole di funzionare nella piena legittimità.
Ricordiamo che tale operazione è perfettamente fattibile e, nel 2000, fu eseguita in pochi giorni in tutta la Sicilia; fu propedeutica alla riclassificazione di tutto il personale regionale trasferendolo da un sistema classificatorio in otto livelli all’attuale sistema classificatorio in quattro categorie.
L’odierno sistema è, nel frattempo, stato superato dalla rivoluzione informatica e da una
digitalizzazione sempre più incalzante che accorcia sempre di più la filiera produttiva nei procedimenti amministrativi. Il mantenimento, quindi, di tale organizzazione del lavoro con un sistema anacronistico, oltre a rappresentare una costante frustrazione per i lavoratori (sia per l’impossibilità di vedere percorsi di carriera, sia per un sistema organizzativo inadeguato che vanifica l’impegno di ciascuno), rappresenta un costante danno nei confronti di tutti i cittadini e gli operatori economici che non trovano un apparato amministrativo adeguato per svolgere le funzioni di cui la Sicilia ha bisogno.
Inoltre, con il blocco delle assunzioni e l’imminente pensionamento della maggior parte del personale delle categorie apicali l’Amministrazione rischia il default organizzativo. In questa emergenza vi è, quindi, l’urgenza di riorganizzare tutto il personale in servizio ricorrendo anche all’avvio di un nuovo confronto con lo Stato che riveda un patto che non può più non tenere conto di queste esigenze politico/amministrative.