Applicabilità dell’articolo 18 ai dipendenti pubblici. Politici e sindacalisti minimizzano. Sono ignoranti o in malafede?

Il governo va avanti sulla riforma del lavoro e tira dritto sull’articolo 18.

Il ministro del lavoro, Elsa Fornerno, ha assicurato che non ci sarà “Nessuna marcia indietro e nessun cedimento a pressioni”, compreso sull’articolo 18, confermando che nei casi di licenziamento per motivi economici, se giudicati illegittimi, ci sarà solo l’indennizzo e, invece, che nei casi di licenziamento disciplinare si affida al giudice il potere di decidere tra reintegro e indennizzo (che in entrambi i casi va da un minimo di 15 ad un massimo di 27 mensilità dell’ultima retribuzione).

L’unica apertura, almeno per il momento, è che non si procederà per decreto ma con disegno di legge che lascia aperta la possibilità che il Parlamento possa modificare il testo.

Ma andiamo alla diatriba che ha tenuto banco in queste ore: l’applicabilità dell’articolo 18 anche ai dipendenti pubblici.

Anche ieri è continuata l’altalena di annunci e smentite, anche da parte dello stesso Ministro Fornero, circa l’applicabilità del “nuovo” articolo 18 ai dipendenti pubblici che ha annunciato che l’estensione dell’art 18 agli statali potrebbe essere prevista in un secondo momento.

Ma vediamo cosa dice la norma per evitare di farci abbindolare da dichiarazioni rassicuranti di ministri o sindacalisti ignoranti o in malafede.

L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori si applica senza alcun dubbio ai pubblici dipendenti. Di conseguenza, è inevitabile che a tali dipendenti si estenda la riforma avviata dal ministro Fornero, a meno che non si introduca una specifica deroga. Ma si tratterebbe di una disposizione pesantemente esposta a rischio di incostituzionalità.

L’articolo 51, comma 2, del decreto legislativo 165/2001 (il testo unico che disciplina il lavoro pubblico) è chiarissimo: “La legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni e integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”.

Lo stesso principio è stato ribadito da una sentenza della Cassazione, la n. 2233 del primo febbraio 2007, la quale ha stabilito che per il recesso del rapporto di lavoro degli impiegati pubblici e per il licenziamento dei dipendenti privati con qualifica impiegatizia valgono esattamente le stesse norme, vale a dire l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, e quindi l’eventuale e conseguente diritto alla reintegrazione.

Ma, lo svarione (come lo chiama Luigi Oliveri nel suo articolo del 22 marzo 2012 di ministri e segretari delle organizzazioni sindacali è doppio.

Infatti, non solo l’articolo 18 si applica direttamente al lavoro pubblico, ma la disciplina del licenziamento per ragioni economiche è stata già introdotta da alcuni mesi nell’ambito del pubblico impiego, cioè dall’entrata in vigore della legge 183/2011 (c.d. legge di stabilità).

Tale legge ha modificato l’articolo 33 del citato D.lgs 165/01 introducendo una sorta di cassa integrazione per i dipendenti pubblici.

Chi ha partecipato alle assemblee di Caltagirone, Trapani e al direttivo provinciale tenutosi al Don Orione ricorderà, certamente, l’allarme lanciato dal sottoscritto sulla questione, passata un po’ in sordina.

In sostanza l’art 33 del dlgs 165/2001, come modificato dall’art. 16 della legge 183/2011, prevede che nel caso in cui uno o più dipendenti siano dichiarati in esubero, in quanto non più utilmente impiegabili nell’ambito dell’organizzazione, né li si possa trasferire in altre amministrazioni, vengono messi «in disponibilità», cioè sulle soglie del licenziamento, per 24 mesi, nel corso dei quali percepiscono uno stipendio pari all’80% di quello precedente e sono vincolati ad accettare eventuali proposte di altre amministrazioni che intendano assumerli.

Le amministrazioni hanno l’obbligo di procedere necessariamente ogni anno alla rilevazione del personale in servizio, per verificare che non emergano casi di lavoratori in eccedenza.

In sostanza ogni datore di lavoro pubblico deve in modo continuativo, almeno ogni anno, controllare che la quantità dei dipendenti sia adeguata all’organizzazione e non vi siano eccedenze di personale. Se non lo fa è prevista una doppia sanzione:

  1. Le amministrazioni pubbliche che non adempiono alla ricognizione annuale non possono effettuare assunzioni o instaurare rapporti di lavoro con qualunque tipologia di contratto pena la nullità degli atti posti in essere.
  2. La mancata attivazione delle procedure di ricognizione da parte del dirigente responsabile è valutabile ai fini della responsabilità disciplinare.

Quindi, per il lavoro pubblico il licenziamento per ragioni economiche è da considerare già sussistente.

La modifica dell’articolo 18 farebbe perdere, a mio avviso, al dipendente pubblico quella sorta di cassa integrazione di 24 mesi e sarebbe, pertanto, immediatamente licenziabile.

Qualcuno potrebbe obiettare che la Regione Siciliana è a statuto autonomo e che sarebbe necessario un recepimento.

ERRORE!

Con la L.R.10/2000 la Regione Siciliana ha recepito il D.L. 29/93 e successive modifiche e integrazioni.

Pubblicato da benedettomineo

Dirigente sindacale Cobas/Codir

Una risposta a “Applicabilità dell’articolo 18 ai dipendenti pubblici. Politici e sindacalisti minimizzano. Sono ignoranti o in malafede?”

  1. E come la mettiamo con l’amministrazione regionale, perennemente accusata di trovarsi in esubero di personale?
    Questa norma potrebbe venire utilizzata in 3 modi, secondo me:
    1) fare da “calmiere” alla stabilizzazione, di fatto impedendola, di altri precari;
    2) diventare uno strumento di “eliminazione selettiva” per il personale regionale (di ruolo e non);
    3) tramutarsi in un “randello” per annientare qualunque pretesa di miglioramento economico.
    Penso che proprio su questo fronte si giocherà la credibilità di un sindacato nel prossimo futuro (dal 2014 in poi, intendo, giacchè almeno fino a quella data sembra che abbiamo già dato tutto quel che potevano dare….)

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