Troppi requisiti e poco stipendio, ecco il flop del concorso Sud

Su NTPlus del Sole24ore l’articolo di Marco Carlomagno – Segretario Generale FLP pubblicato su LinkedIn

La vicenda del concorso per il Sud, varato dal Ministro Brunetta, ci insegna almeno due cose molto importanti: la prima è che nella filosofia del management non c’è spazio per le improvvisazioni; la seconda, che tra i motivi per i quali molti settori delle pubbliche amministrazioni non funzionano come dovrebbero c’è il fatto che la politica non rinuncia alle incursioni nella gestione e troppo spesso i ministri, anziché affidarsi a tecnici capaci, preferiscono legare il proprio nome a riforme e provvedimenti che puntualmente non fanno i conti con la realtà.

Vi è da dire che il rischio di «selezione avversa» e il malcostume di cercare scorciatoie è ben presente anche nel mondo del lavoro privato. Ai due estremi della struttura imprenditoriale italiana vi sono, infatti, strategie organizzative molto diverse: le imprese che vogliono competere sull’innovazione e sulla qualità – di processo e di prodotto – vanno a prendersi i talenti nelle scuole e nelle università, li formano sui propri modelli di business e li pagano di conseguenza e, nel caso abbiano bisogno di personale già qualificato, lo cercano sul mercato offrendogli migliori condizioni rispetto alla concorrenza; quelle che, invece, pensano che la competizione si faccia sui prezzi, risparmiano sui costi di formazione e cercano solo personale con esperienze pregresse nello stesso settore salvo poi assumerlo con contratti atipici. Ovviamente, queste ultime si lamentano che scuole e università non abbiano come unico riferimento esattamente la tipologia di impresa che si trova su quel territorio, hanno una visione miope delle risorse umane e interessa loro personale addestrato anziché persone formate a comprendere la complessità e adattarsi a essa. Inutile sottolineare quali delle due tipologie di impresa ha successo sui mercati e traini la crescita del Paese.

Il Ministro Brunetta si è purtroppo comportato come la peggiore delle imprese: ha bandito un concorso chiedendo anni di esperienza in determinati settori, ma offrendo in cambio un contratto precario e un salario assolutamente non da esperti, bensì pari al livello iniziale dei funzionari. È riuscito, in tal modo, a raggiungere un doppio risultato negativo: escludere a priori i migliori giovani laureati e attrarre solo professionisti che, evidentemente, non riuscivano a stare sul mercato ed erano quindi disposti ad accontentarsi di fare gli «esperti di fondi strutturali europei» a 1.300-1.400 euro al mese. Altro che «cherry picking»!

Taluni, poi, pur di essere ammessi alle prove, hanno dichiarato di aver fatto esperienze lavorative anche se ciò non rispondeva al vero, giacché era possibile autodichiarare genericamente la propria esperienza nei settori oggetto del concorso. Il risultato è stato che brillanti laureati con poca esperienza e soggetti che temevano di essere scoperti per aver dichiarato esperienze inesistenti non si sono presentati alla selezione.

La ragionevolezza avrebbe voluto che si prendesse atto degli errori commessi, si riaprissero i termini del concorso e si provvedesse davvero a selezionare i migliori.

La toppa del ministro, invece, è stata peggio del buco: ammettere tutti gli 80.000 candidati originari alle selezioni, esperienza o meno.

Quindi, tirando le somme, alla fine sarà premiato, oltre a chi ha esperienza sulla carta ma non sufficiente competenza per stare sul mercato del lavoro, chi ha puntato sulla «italica furbizia», presentando domanda anche senza avere l’esperienza richiesta, mentre resteranno fuori tutti quei giovani (e meno giovani) laureati che hanno seguito le regole non candidandosi.

Inutile dire che questi sono i veri motivi per i quali l’Italia non cambia, si trova in fondo alle classifiche internazionali per innovazione nei modelli organizzativi e di business e chi fa scelte che si rivelano sbagliate non ammette mai i propri errori. Il conto lo paga la nostra economia. Solo che mentre un errore commesso dal management di un’impresa privata danneggia in primis gli azionisti di quell’impresa, le scelte sbagliate dei politici nel settore pubblico danneggiano i cittadini e le imprese nel loro complesso.

E questa non può certamente definirsi una politica lungimirante.

Pubblicato da benedettomineo

Dirigente sindacale Cobas/Codir