Tfr agli statali in forte ritardo. Pressing interno all’Inps per un intervento

Tratto da ilsole24ore.com

Il Consiglio di indirizzo e vigilanza dell’istituto chiede anche un intervento normativo che consenta ai dipendenti del pubblico di ottenere la prestazione in tempi accettabili.


Il Consiglio di indirizzo e vigilanza dell’Inps interviene sul nodo dei ritardi nel pagamento del trattamento di fine servizio e di fine rapporto ai dipendenti della Pa. Da una parte sollecita un intervento normativo che consenta ai lavoratori pubblici di ottenere il trattamento di fine servizio in tempi accettabili; dall’altra «ha chiesto agli organi di gestione dell’Istituto di elaborare tempestivamente un progetto specifico per ridurre i tempi di erogazione» di queste prestazioni. È quanto si legge in una nota del Civ che sottolinea anche come le domande totali di anticipazione del Tfs/Tfr presentate dai lavoratori dal primo febbraio al 12 dicembre 2023 siano state 17.539, quelle respinte 6.195, quelle in lavorazione 9.138 e quelle lavorate 2.216.

Il Consiglio di indirizzo e vigilanza dell’Inps, si legge, ha adottato una deliberazione sui Trattamenti di fine servizio e fine rapporto dei pubblici dipendenti, riguardante anche le anticipazioni Tfs/Tfr da parte del Fondo Welfare, e le liquidazioni per gli iscritti ai fondi di previdenza negoziale Perseo Sirio ed Espero.

La sentenza della Corte costituzionale

Il problema dei lunghi tempi di erogazione per queste prestazioni è stato messo in evidenza dalla sentenza della Corte Costituzionale con la quale viene rivolto in maniera esplicita un invito al legislatore affinché individui in tempi ragionevoli i mezzi e le modalità di attuazione di un intervento riformatore in materia.

Sui ritardi pesano carenza di personale e insufficiente formazione degli operatori

Il Civ raccogliendo le segnalazioni provenienti dalle Federazioni sindacali dei pensionati ha rilevato che l’iter di erogazione del Tfr e del Tfs e della nuova prestazione di anticipo Tfs e Tfr «subisce attualmente significativi ritardi determinati non solo dalla normativa, ma da altri fattori, come la carenza di personale dedicato a tale attività e una insufficiente formazione degli operatori. Ciò sta determinando, soprattutto in alcune realtà territoriali, un parallelo incremento del contenzioso».

Circolare prot. n. 5413 del 19 gennaio 2023. FoRD 2023: 1) – straordinario 2023; 2) – contrattazione collettiva decentrata integrativa 2023; 3) – valutazioni del comparto dirigenziale e del comparto non dirigenziale 2023

Circolare prot. n. 5413 del 19 gennaio 2023. FoRD 2023: 1) – straordinario 2023; 2) – contrattazione collettiva decentrata integrativa 2023; 3) – valutazioni del comparto dirigenziale e del comparto non dirigenziale 2023.

 

Cassazione: licenziamento illegittimo se lavoratore interrompe il comporto con le ferie

Tratto da lavorosi.it

Con l’ordinanza n. 582 del 08.01.2024, la Cassazione afferma che il periodo di comporto, ai fini dell’art. 2110 c.c., deve essere interrotto per effetto della richiesta del lavoratore di godere del periodo feriale, che il datore deve concedere anche in costanza di malattia del dipendente stesso.

Il fatto affrontato

Il lavoratore impugna giudizialmente il recesso irrogatogli per superamento del periodo di comporto, deducendo che erano stati erroneamente computati anche cinque giorni di assenza nell’agosto 2016 riferibili, invece, a ferie.
La Corte d’Appello accoglie la predetta domanda, sul presupposto che il dipendente, che aveva chiesto di poter beneficiare delle ferie dopo la scadenza della malattia, non era tenuto precisare la sua intenzione di interrompere il decorso del comporto.

L’ordinanza

La Cassazione – nel confermare la pronuncia di merito – rileva, preliminarmente, che al lavoratore assente per malattia è consentito di mutare il titolo dell’assenza con la richiesta di fruizione delle ferie già maturate al fine di sospendere il decorso del periodo di comporto.

Secondo i Giudici di legittimità, infatti, vige nel nostro ordinamento il principio di conversione delle cause di assenza dal lavoro, che rende possibile il mutamento del titolo dell’assenza stessa, ancorché in corso, in altro che presupponga una diversa giustificazione.

Pertanto, per la sentenza, ove una richiesta di ferie sia stata avanzata e, sia pure parzialmente, accolta prima del superamento del periodo di comporto, il datore non può conteggiare i relativi giorni di assenza ai fini della conservazione del posto, attesa la garanzia costituzionale del diritto alle ferie e il rilevante e fondamentale interesse del dipendente a evitare, con la fruizione delle stesse o di riposi compensativi già maturati, la possibile perdita del posto di lavoro.

Su tali presupposti, la Suprema Corte rigetta il ricorso proposto dalla società, avendo la stessa autorizzato le ferie in prosecuzione della malattia.

Pensioni “elevate” (4 volte quelle minime?) da tagliare. Pensioni di reversibilità da rivedere. Limitare la copertura della detrazione per il coniuge a carico. Ecco le riforme suggerite dall’Ocse all’Italia

Fonti: PAmagazine.it, ilsole24ore.com, ilfattoquotidiano.it

Assegni da tagliare, l’Ocse detta i termini della nuova riforma previdenziale che dovrà prevedere anche lo stop alle misure per la pensione anticipata.

L’Ocse, inoltre, suggerisce di spostare la tassazione dal lavoro ai beni immobili, di rivedere le pensioni di reversibilità, di limitare la copertura della detrazione per il coniuge a carico.


L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) ha lanciato l’allarme per il debito pubblico italiano, il cui rapporto con il Pil è tra i più elevati dell’area di competenza.

L’Organizzazione, che ricordiamo esprime pareri non vincolanti, consiglia quindi il governo Meloni rispetto alla necessità di effettuare al più presto una riforma fiscale che tra i tanti punti dovrà toccare anche le pensioni.

L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che ha base a Parigi non si limita solo a ribadire l’invito a spostare la tassazione dal lavoro ai beni immobili (suo refrain da decenni) ma consiglia caldamente l’introduzione di un contributo di solidarietà sugli assegni pensionistici più alti, allo scopo di riequilibrare il sistema e ridurre il deficit contributivo. L’Ocse non arriva a fissare direttamente la soglia dalla quale far partire la nuova tassa, ma fa capire che un’idea precisa ce l’ha, facendo riferimento alla deindicizzazione, che già ora fa da spartiacque tra chi ha diritto a un recupero più ampio dell’inflazione e chi invece, in virtù di una capacità d’acquisto ritenuta superiore, può fare a meno dell’adeguamento dell’assegno. Peccato, però, si tratti di una soglia fissata al ribasso. Oggi, infatti, il recupero integrale dell’inflazione vale solo per le pensioni che non superano di 4 volte quelle minime. In altre parole, l’assicella è stata fissata a poco più di 2.000 euro lordi al mese, che al netto vuol dire si e no di 1.500 euro netti, non proprio una pensione d’oro.

Per l’Ocse, quindi, sopra questa soglia non solo non si deve recuperare l’inflazione, ma si dovrebbe pure pagare un contributo di solidarietà.

L’Ocse suggerisce, inoltre, di modificare il meccanismo della reversibilità, e non su base proporzionale al reddito, ma erga omnes. L’assegno ai coniugi superstiti, infatti, secondo l’Ocse, dovrebbe essere pagato loro solo dopo il superamento dei 67 anni d’età. Poco importa se le vedove (o i vedovi) abbiano o no un proprio reddito, e nemmeno se abbiano o no figli a carico (che in questo caso sarebbe più corretto definire orfani). Secondo l’Ocse, dunque, se ad una famiglia viene a mancare (magari per un incidente sul lavoro) l’unica fonte di sostentamento, fatti loro!

Tra le raccomandazioni anche l’eliminazione delle spese fiscali «costose che non hanno una giustificazione economica o distributiva, ad esempio limitando la copertura della detrazione per il coniuge a carico».

A proposito della sentenza della Corte Costituzionale sugli aumenti stipendiali dei dipendenti pubblici in servizio negli anni 90

Di Jastrow (Opera propria) [Public domain], attraverso Wikimedia CommonsCome è noto, in data 11 gennaio 2024 è stata depositata la Sentenza n. 4/2024 con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 51, comma 3 della legge n. 388/2000 (Legge finanziaria 2001) che escludeva la proroga al 31 dicembre 1993 quale termine utile per la maturazione dell’anzianità di servizio ai fini dell’ottenimento della maggiorazione della RIA.

Con tale sentenza il computo dell’anzianità di servizio utile al calcolo della maggiorazione RIA non si ferma al termine del 31 dicembre 1990, come disposto dalla L. 388/2000 (Legge finanziaria 2001), ma comprende anche il periodo 1991-1993, come previsto dal D.L. n. 384 del 1992.

Tale decisione della Consulta avrà sicuramente effetto su tutti i giudizi pendenti, producendo il riconoscimento (con relativo ricalcolo) dell’anzianità maturata fino alla data del 31 dicembre 1993 e la rideterminazione (con effetto retroattivo) della maggiorazione RIA, del TFS e del trattamento pensionistico futuro o già in essere. La situazione rimane controversa per i lavoratori il cui ricorso è stato respinto sulla base della norma interpretativa o per i lavoratori che non hanno presentato ricorso.

Prima di intraprendere inutili ricorsi attendiamo gli sviluppi a livello nazionale.


Dipendenti Pubblici, in arrivo 34 anni di Arretrati sugli Stipendi: la Sentenza

Aumenti Stipendiali dei Dipendenti Pubblici in servizio negli anni 90: La decisione della Corte Costituzionale

Riscatto agevolato della laurea più caro nel 2024: si pagheranno circa 300 euro in più per ogni anno

Tratto da pamagazine.it

Costi più elevati e nuove regole per il riscatto agevolato della laurea. Per riscattare un anno di laurea con la tariffa scontata si pagheranno infatti nel 2024 circa 6.100 euro e non più 5.776 euro come fino all’anno scorso. Anche in questo caso a cambiare gli importi è la rivalutazione, il cui impatto non riguarda solo pensioni e assegno unico universale. Altra novità. Da adesso in poi i contributi versati per il riscatto della laurea potranno essere destinati a una gestione pensionistica solo per via telematica.

La spesa

Introdotto quasi 30 anni fa, il riscatto universitario permette di far figurare il periodo di studi come anni di lavoro, con gli appositi contributi. Il periodo riscattabile va dal 1° novembre dell’anno di immatricolazione al 31 ottobre dell’ultimo anno di durata legale del corso stesso. Per quanto riguarda i costi, si può scegliere tra una tariffa fissa light (il riscatto agevolato appunto) e la modalità ordinaria. Se il periodo da riscattare cade nel periodo contributivo, con il metodo agevolato il costo per ogni anno di riscatto è fisso, mentre per quello ordinario la spesa si calcola moltiplicando il reddito medio percepito nei dodici mesi precedenti alla domanda di riscatto per l’aliquota per Invalidità, vecchiaia e superstiti (Ivs), che anche nel 2024 si attesta al 33%. Il riscatto ordinario costa mediamente anche 4-5 volte di più per ogni anno rispetto al riscatto agevolato.

Le regole

I contributi versati per il riscatto della laurea, prima di essere iscritti a una forma di previdenza obbligatoria, vengono collocati dall’Inps nel fondo lavoratori dipendenti: spetta poi all’interessato indicare all’istituto di previdenza dove accreditare tali contributi, scegliendo una gestione in cui è o è stato iscritto. L’Inps, con la circolare 14/2024, ha spiegato che le domande di trasferimento dei contributi presentate non per via telematica non potranno più essere processate. Non c’è un termine di scadenza entro cui inoltrare la domanda. Nella circolare si afferma, poi, che Inps non ha preclusioni a trasferire l’ammontare alle Casse di previdenza dei professionisti. Saranno queste ultime a decidere «sulla base delle determinazioni che ogni singolo ente vorrà adottare». Intanto, nonostante in Italia nel 2022 la quota di giovani adulti in possesso di un titolo di studio terziario sia leggermente cresciuta, attestandosi al 27,4% tra i 30 e i 34 anni e al 29,2% tra i 25 e i 34 anni, resta lontana dagli obiettivi europei (40% e 45%, rispettivamente).

 

Fatture pagate in ritardo? Pagano i dirigenti della Pubblica amministrazione

Tratto da quifinanza.it

Giro di boa per le fatture emesse alla pubblica amministrazione. Tra gli obiettivi dei dirigenti c’è la puntualità.


La pubblica amministrazione cambia passo sui pagamenti e sulla gestione delle fatture dei fornitori. Che troppo spesso vengono pagati in tempi troppo lunghi. La circolare n. 1/2024 della Ragioneria Generale dello Stato, nella quale sono contenute delle indicazioni sull’applicazione dell’articolo 4-bis del Decreto Legge n. 13 del 24 febbraio 2023, ricorda la necessità di modificare i contratti dei dirigenti responsabili delle fatture. Ma non solo: dovranno essere rivisti i contratti dei dirigenti apicali delle rispettive strutture.

L’obiettivo, sostanzialmente, è quello di andare a responsabilizzare il personale addetto ai pagamenti delle fatture. Nel caso in cui non dovessero essere rispettati i tempi di pagamento, per i soggetti appena citati scatta la decurtazione della retribuzione di risultato.

La gestione delle fatture nella pubblica amministrazione

Sicuramente uno dei nodi più importanti da sciogliere, per le aziende ed i professionisti che lavorano per la pubblica amministrazione, è il tempo di pagamento delle fatture, che troppo spesso è lento.

L’articolo 4-bis del Decreto Legge n. 13/2023 si inserisce nel più ampio quadro della riforma 1.11 del Pnrr e che ha come oggetto proprio la “Riduzione dei tempi di pagamento delle pubbliche amministrazioni e delle autorità sanitarie”. Il legislatore ha previsto che entro i primi tre mesi del 2025 – con ulteriore conferma nel corso del primo trimestre 2026 – vengano centrati alcuni obiettivi ben specifici che riguardano i tempi di pagamento delle fatture dei fornitori.

In altre parole si vuole porre rimedio ai ritardi del settore pubblico nel saldare le fatture regolarmente emesse ed approvate dei fornitori. I target fissati sono ben precisi e delineati. Ma soprattutto prevedono uno scadenziario così articolato:

  • gli enti del Servizio Sanitario Nazionale: l’indicatore del tempo medio di pagamento è posto in 60 giorni;
  • i rimanenti comparti: l’indicatore del tempo medio di pagamento è 30 giorni;
  • per tutti i comparti l’indicatore del tempo medio di ritardo è pari a zero.

Come devono essere calcolati gli indicatori

A questo punto sorge una domanda: come devono essere calcolati gli indicatori? Per farlo è necessario prendere in considerazione un volume pari ad almeno l’80% dell’importo complessivo delle fatture ricevute dalla pubblica amministrazione nel corso del 2024. La percentuale, l’anno successivo, sale al 95% dell’ammontare complessivo che dovrà essere versato nel corso del 2025.

Partendo da queste premesse, l’articolo 4-bis del Decreto Legge n. 13 del 24 febbraio 2023 impone agli enti territoriali e alle amministrazioni centrale di assegnare ai dirigenti, che hanno il compito di pagare le fatture commerciali, specifici obiettivi, strettamente legati al rispetto dei tempi di pagamento. La gestione delle tempistiche di pagamento delle fatture commerciali rientrano nei sistemi di valutazione delle performance che vengono previste nei rispettivi ordinamenti. Questa novità determina la necessità di andare ad integrare i rispettivi contratti individuali.

Quali conseguenze comporta questa novità

Saldare puntualmente le fatture commerciali diventerà uno degli obiettivi posti ai dirigenti della pubblica amministrazione. Questo obiettivo verrà centrato, tra l’altro, con l’integrazione delle schede di programmazione degli obiettivi del personale responsabile di queste operazioni. Dovranno essere previsti degli specifici obiettivi annuali strettamente connessi con il rispetto dei tempi di pagamento delle fatture commerciali e dovranno essere opportunamente valutati per il riconoscimento della retribuzione di risultato. Questi obiettivi dovranno avere un peso non inferiore al 30% per quanto riguarda la quota che serve per determinare il raggiungimento degli obiettivi.

All’interno della circolare diramata dalla Ragioneria Generale dello Stato non vengono fornite delle indicazioni precise e dettagliate su quali siano le figure professionali interessate da questa norma. La questione, infatti, è lasciata alla completa e totale autonomia decisionale ed organizzativa del singolo ente coinvolto.

Gli obiettivi relativi alle fatture commerciali

Siamo davanti ad un tema particolarmente delicato, soprattutto quando si entra negli enti locali. In questo caso, infatti, non è prevista una netta distinzione tra i dirigenti di prima fascia – ossia quelli apicali, che la norma richiama esplicitamente – e quelli di seconda fascia. Nella maggior parte delle occasioni l’unica figura dirigenziale prevista è quella del segretario.

Questo significa che, in molti casi, andare ad individuare chi possa essere il responsabile dei pagamenti e degli eventuali ritardi non sempre è facile. Nella maggior parte delle occasione la responsabilità di liquidare la fattura è in capo all’ufficio che ha disposto la spesa, mentre il pagamento vero e proprio viene effettuato materialmente dal servizio finanziario.

Altrettanto difficile è riuscire ad effettuare un vero e proprio monitoraggio delle cause che possono portare al rallentamento dei pagamenti delle fatture. In altre parole non risulta facile comprendere cosa ostacoli il flusso: non sempre a frenare le operazioni è la carenza di liquidità. Per poterlo fare sarebbe necessario che ogni singola amministrazione provveda a registrare in maniera puntuale e precisa l’iter gestionale di ogni singola fattura, passando dall’accettazione, alla liquidazione e al pagamento.

Operazioni che non è detto che avvengano in maniera puntuale e precisa. Soprattutto negli enti che hanno una dimensione minore. Il rischio è che, nel momento in cui vengono effettuate delle verifiche, possano mancare gli elementi necessari per attribuire a ciascun soggetto le responsabilità effettive.

In sintesi

L’obiettivo posto alla Pubblica amministrazione è quello di abbreviare i tempi di pagamento delle fatture commerciali, smaltendo in tempi rapidi i cosiddetti documenti lenti. Per centrare questo obiettivo, di primaria importanza per le aziende e i liberi professionisti, il rispetto di determinate tempistiche nei vari saldi costituirà uno dei principi sui quali verranno conteggiati i premi di risultato dei dipendenti pubblici. Ovviamente di quelli che sono responsabili di queste operazioni.

Nel momento in cui verranno rispettate determinate tempistiche nella gestione, nella liquidazione e nel pagamento delle fatture, verranno riconosciuti i premi. In caso contrario no. Per poter introdurre questa novità è necessario andare a modificare i contratti dei dipendenti responsabili dei pagamenti.

Gli aumenti sugli stipendi dei dipendenti pubblici saranno legati ai risultati. Basta aumenti a pioggia dei tabellari

Tratto da lentepubblica.it

Una parte «cospicua» dei fondi stanziati dal governo per il rinnovo dei contratti dei pubblici dipendenti dovrà essere riservata agli «istituti collegati alla produttività».

Detto in altri termini, i prossimi aumenti di stipendio degli statali dovranno tenere maggiormente conto dei risultati raggiunti da ciascun dipendente. Dunque le risorse stanziate dal governo non dovranno finire tutte sul cosiddetto “tabellare”, la parte della retribuzione erogata indistintamente a tutti i dipendenti.

La novità è stata introdotta dalla cosiddetta “direttiva madre”, l’atto firmato dal Ministro della Pubblica Amministrazione Paolo Zangrillo, che porterà alla convocazione dei tavoli tra l’Aran e i sindacati.

Con la direttiva madre saranno delineate le linee guida del Governo che l’Aran dovrà seguire, dopo aver ottenuto il via libera dal Ministero dell’Economia.

Nella direttiva si punta maggiormente sulla valutazione dei dipendenti, sia per quanto riguarda il pagamento del salario accessorio (ovvero i premi) e sia per quanto riguarda le progressioni economiche (ovvero gli scatti di stipendio).

Si evidenzia così l’intenzione di evitare una distribuzione generalizzata dei premi, che potrebbe verificarsi se tutti i dipendenti ottenessero il massimo dei voti nelle valutazioni. Si direbbe così definitivamente l’addio alla distribuzione dei premi a pioggia, come accade nella maggior parte delle amministrazioni.

L’obiettivo è quindi quello di differenziare i premi in base alle effettive performance dei dipendenti, cercando di eliminare pratiche di assegnazione automatica dei premi.
Il fine è pertanto quello di valorizzare di più il merito, specialmente quello individuale, spesso sottovalutato all’interno della Pubblica Amministrazione.

Come spiegato nella direttiva:

“sarà necessario garantire che alla differenziazione dei giudizi valutativi corrisponda una effettiva diversificazione dei trattamenti economici correlati”.

Secondo Zangrillo, se non si riuscisse a premiare i dipendenti migliori, potrebbero esserci “seri rischi da un punto di vista organizzativo, con un impatto negativo sulla motivazione dei dipendenti”.

Premiando i dipendenti migliori, non solo vuol dire gratificarli col salario accessorio, ma significa anche dare loro una corsia preferenziale nelle progressioni economiche con gli scatti di stipendio che, finora, hanno premiato più l’anzianità che il merito.

Ceto medio tartassato dalle tasse: ecco chi paga di più e perché. E le strategie del governo per abbassare la pressione fiscale non bastano

Tratto da lastampa.it

Scende il carico tributario nell’ultimo trimestre, ma i dati Eurostat raccontano una realtà diversa: la “punizione” si abbatte su talune classi di reddito


Il ceto medio? Un agrume spremuto dalle tasse. Il governo, con la riforma fiscale in rampa di lancio, promette di aggiustare gli squilibri nella distribuzione del carico tributario. Ma la strada, numeri alla mano, appare davvero in salita.

Nel terzo trimestre del 2023 la pressione fiscale, nel nostro Paese, è in diminuzione rispetto al terzo trimestre dell’anno precedente. Lo ha rilevato l’Istat nel Conto trimestrale delle amministrazioni pubbliche spiegando che la pressione fiscale è stata pari al 41,2%, in riduzione di 0,2 punti percentuali rispetto allo stesso periodo del 2022. Bene, un piccolo miglioramento, ma solo in linea teorica. Perché se poi, scorgendo le statistiche Eurostat, si entra più nel dettaglio, si scopre, come detto, una realtà molto più amara. Nella quale il carico tributario è distribuito in maniera sbilenca, punendo eccessivamente talune classi di reddito. Quali, di preciso? È presto detto: dall’analisi delle dichiarazioni dei redditi emerge che 5 milioni di italiani, con redditi superiori a 35 mila euro lordi (il 13% del totale) pagano in complesso il 59,95% dell’Irpef. Un grande squilibrio. E ancora: esaminando le dichiarazioni a partire dagli scaglioni di reddito più elevato, sopra i 100 mila euro, emerge solo l’1,21% dei contribuenti che, tuttavia, versa il 19,91% delle imposte. Sommando a questi contribuenti anche i titolari di redditi lordi da 55.000 a 100mila euro (che sono 1.385.974, il 3,37% del totale, e pagano il 18,14% del totale delle imposte), si ottiene che il 4,58% paga il 38,05% dell’Irpef. Includendo infine anche i redditi dai 35 mila ai 55 mila euro lordi, risulta, come detto, che il 12,99% paga il 59,95% dell’imposta sui redditi delle persone fisiche.

Su 59,6 milioni di cittadini residenti in Italia all’1 gennaio 2020 sono stati 41 milioni quanti hanno presentato una dichiarazione dei redditi nel 2021 (con riferimento all’anno di imposta precedente). A versare almeno 1 euro di Irpef sono stati però solo 30,2 milioni residenti, vale a dire poco più della metà degli italiani: a ogni contribuente corrispondono quindi 1,448 abitanti. Il 79,2% degli italiani dichiara redditi fino a 29 mila euro e corrisponde solo il 27,57% di tutta l’Irpef, e quindi un’imposta neppure sufficiente a coprire la spesa per le principali funzioni di welfare. Insomma, andando al sodo, le statistiche fiscali sembrano smentire il falso mito di una oppressione fiscale diffusa che vuole tutti i cittadini tartassati dal fisco e penalizzati delle eccessive imposte. Ad esempio, solo per pagare la spesa sanitaria, per i primi 2 scaglioni di reddito fino a 15 mila euro, la differenza tra l’Irpef versata e il costo della sanità ammonta a 51,817 miliardi; la differenza sale a 58,2 miliardi sommando
i redditi da 15 a 20mila euro. Considerando anche spesa assistenziale e welfare degli enti locali, la redistribuzione totale è pari a 219 miliardi su circa 555 di entrate, al netto dei contributi sociali. In pratica, viene redistribuito il 40% di tutte le entrate e quasi il 100% delle imposte dirette, che va totalmente a beneficio del 58,06% di popolazione (corrispondente a quanti dichiarano fino 20mila euro) e, in parte, al restante 28,96% (corrispondente ai dichiaranti tra i 20 e i 35mila euro); poco nulla al 12,99% dei paganti.

PA: addio all’autoreferenzialità, la svolta nella Valutazione della Performance

Tratto da ntplusdiritto.ilsole24ore.com

La direttiva del 28 novembre rappresenta un momento di svolta per la misurazione e valutazione della performance. Strumento ideato per migliorare l’efficienza e basare sul merito i riconoscimenti ai dipendenti, acquisendo però nella sua applicazione caratteri di autoreferenzialità. Con l’apertura alla valutazione dal “ basso ” e all’esterno delle PP.AA questa tendenza può essere invertita…..continua a leggere


Confronto relativo all’aggiornamento del Sistema di Misurazione e Valutazione della Performance della Regione Siciliana per l’anno 2024 – Proposte di modifica e/o integrazione da parte del Cobas/Codir


Lavoro agile nel pubblico impiego, nuova direttiva del ministro Zangrillo