Diritto del lavoratore che assiste un parente disabile di non essere trasferito senza il suo consenso

Diritto del lavoratore che assiste un parente disabile di non essere trasferito senza il suo consenso
Il lavoratore, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assista con continuità un parente o un affine entro il terzo grado handicappato, non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede.

Due sono le disposizioni di legge da considerare:

  1. l’art. 33 comma 5 della legge n. 104/1992 (1),
  2. l’art. 20 della legge n. 53/2000 (2).

E tre sono i presupposti per l’esercizio del diritto:

  1. la continuità nell’assistenza;
  2. l’esclusività nell’assistenza;
  3. la compatibilità dell’esercizio del diritto del lavoratore con le esigenze economiche, produttive od organizzative del datore di lavoro.

La continuità (cfr. circolare INPS n. 133 del 17 luglio 2000) consiste nell’effettiva assistenza del soggetto disabile per le sue necessità quotidiane da parte del lavoratore-familiare del soggetto stesso.
La esclusività va intesa nel senso che il lavoratore deve essere l’unico soggetto che presta assistenza alla persona handicappata: la esclusività stessa non può, perciò, considerarsi realizzata quando il soggetto handicappato (non convivente con il lavoratore richiedente) risulta convivere in un nucleo familiare in cui sono presenti lavoratori-familiari che possano beneficiare di tali tutele per questo stesso handicappato.
Un solo lavoratore familiare di disabile può, cioè, fruire dei benefici e delle tutele di legge, benefici e tutele che non possono sdoppiarsi in capo a più soggetti (3).

L’obiettivo del legislatore è il bilanciamento tra i contrapposti interessi in gioco: le particolari tutele di cui gode il lavoratore che assiste un disabile grave (anche in caso di trasferimento da un’unità produttiva ad un’altra ex art. 2103 c.c.) e le esigenze economiche ed organizzative del datore di lavoro.

La Corte di Cassazione, con la sentenza delle Sezioni Unite n. 7945 del 27 marzo 2008, hanno aggiunto, superando orientamenti diametralmente opposti sul punto, l’ulteriore e indispensabile requisito della “compatibilità”: “il diritto del genitore o del familiare lavoratore, che assiste con continuità un portatore di handicap, di non essere trasferito ad altra sede senza il proprio consenso, disciplinato dall’art. 33, comma 5, della legge n. 104 del 1992, non si configura come assoluto ed illimitato, giacché esso – come dimostrato anche dalla presenza dell’inciso “ove possibile” – può essere fatto valere allorquando, alla stregua di un equo bilanciamento tra tutti gli implicati interessi costituzionalmente rilevanti, il suo esercizio non finisca per ledere in maniera consistente le esigenze economiche, produttive od organizzative del datore di lavoro”.

Mentre la legge n. 104/1992, all’art. 33, richiedeva la convivenza nel medesimo domicilio tra lavoratore e portatore di handicap, la legge 8 marzo 2000 n. 53, oltre ad eliminare il requisito della convivenza (4), ha ribadito la previsione dell’esclusività dell’assistenza e ristretto la categoria dei beneficiari, posto che la tutela ai fini del trasferimento può essere richiesta solo da unico parente disponibile a prestare l’assistenza necessaria.
La finalità è evidente: garantire la continuità della tutela dell’assistenza solamente quando viene effettivamente prestata dall’unico familiare in grado di farlo. Diversamente ragionando, il legislatore non avrebbe avvertito l’esigenza di ribadire la necessità dell’assistenza continua in via esclusiva.

Peraltro, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 19 del 26 gennaio 2009 (in cui ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 42 comma 5 del D.Lgs. 26 marzo 2001 n. 151 nella parte in cui non include, nel novero dei soggetti legittimati a fruire del congedo ivi previsto, il figlio convivente, in assenza di altri soggetti idonei a prendersi cura della persona in situazione di disabilità grave), ha offerto un’ulteriore chiave di lettura: il congedo può essere riconosciuto al lavoratore figlio convivente del portatore di handicap grave, qualora non vi siano altri soggetti idonei a prendersene cura.

Il lavoratore deve documentare al suo datore di lavoro la sussistenza dei presupposti per accedere ai benefici di cui alla legge n. 104/1992.

Si ricorda, infine, che il requisito di continuità dell’assistenza prestata dal dipendente, per consolidato indirizzo giurisprudenziale, deve necessariamente essere in atto al momento del trasferimento, per cui la tutela va accordata solo al lavoratore che già assista con continuità un familiare portatore di handicap grave e non anche al lavoratore dipendente che, non assistendo ancora con continuità ed esclusività un familiare, rifiuti un trasferimento proprio al fine di poter instaurare detto rapporto.

Note:

  1. Il genitore o il familiare lavoratore, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assista con continuità un parente o un affine entro il terzo grado handicappato ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede.
  2. Le disposizioni dell’articolo 33 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, come modificato dall’articolo 19 della presente legge, si applicano anche qualora l’altro genitore non ne abbia diritto nonché ai genitori ed ai familiari lavoratori, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assistono con continuità e in via esclusiva un parente o un affine entro il terzo grado portatore di handicap, ancorché non convivente.
  3. Ne è la riprova il modulo INPS Hand 2 – COD. SR08.
  4. All’articolo 33 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, sono apportate le seguenti modificazioni: a) al comma 3, dopo le parole: “permesso mensile” sono inserite le seguenti: “coperti da contribuzione figurativa”; b) al comma 5, le parole: “con lui convivente” sono soppresse; c) al comma 6, dopo le parole: “può usufruire” è inserita la seguente: “alternativamente” (Tratto dal sito wikilabour.it).

Pubblicato da benedettomineo

Dirigente sindacale Cobas/Codir

2 Risposte a “Diritto del lavoratore che assiste un parente disabile di non essere trasferito senza il suo consenso”

  1. Gli abusi ci sono anche per la malattia (stendo un velo pietoso sui permessi sindacali).
    Fa parte della nostra natura.
    Allora che facciamo, togliamo la malattia?
    Aboliamo i sindacati come dice Grillo?
    Dobbiamo far piangere il giusto per il peccatore? Bisognerebbe, a mio avviso, un maggior senso del dovere agendo sul fattore motivazionale che avrebbe un effetto benefico ancor più “dello stato di polizia”.

  2. Tutto giustissimo.
    Però sappiamo anche che, tra i colleghi cui è stato riconosciuto tale diritto, ci sono alcuni che ne hanno approfittato e continuano ad approfittarne indegnamente….

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