Tratto da PAmagazine
“Dove vai? Porto pesci”. È un antico detto, frutto della grande saggezza popolare, con cui i nostri vecchi fulminavano chi menava il can per l’aia o provava a dare risposte evasive a problemi molto concreti. Una frase che mi rimbomba nella mente da quando ho letto come il ministro Paolo Zangrillo vorrebbe risolvere un problema che stiamo sollevando da mesi: come evitare, cioè, che i prossimi aumenti contrattuali dei dipendenti pubblici possano essere vanificati dal limite di 35 mila euro di reddito, oltre il quale si perde il diritto al taglio del cuneo fiscale.
Il governo, infatti, ha stabilito che se si supera anche di un solo euro quella quota retributiva annua il lavoratore dovrà pagare all’Inps l’intera quota contributiva (il 9,8% dello stipendio) e non le aliquote ridotte (il 2,9% per chi guadagna non più di 25 mila euro e il 3,8% per chi sta nella fascia fino a 35 mila euro). È facile capire che, per chi sta vicino a quel limite contributivo (e cioè gran parte dei dipendenti pubblici), il rischio assai concreto sarebbe quello di non vedere in busta paga alcun beneficio se non addirittura di trovarsi calla fine on un assegno più leggero di quello precedente.
Intervistato dal Messaggero il ministro della Pubblica Amministrazione ha derubricato la questione a mero “effetto automatico del vantaggio fiscale” del taglio del cuneo, e ha proposto come soluzione il recupero di una vecchia ricetta. “Anni fa, in una situazione simile”, ha ricordato il ministro, “si pensò a un elemento perequativo della retribuzione, per cui le risorse dei contratti collettivi furono distribuite in modo percentualmente differenziato”. Eccoli qui i pesci di cui parlavamo all’inizio. Il ministro, infatti, non può non sapere che la soluzione trovata per il contratto 2016-2018, nasceva da un contesto molto differente: il governo di allora (guidato da Paolo Gentiloni) doveva garantire a ogni lavoratore l’aumento di 85 euro al mese promessi da tempo, ma l’aumento percentuale del 3,48% stabilito al tavolo sindacale non bastava a far raggiungere quella cifra alle fasce retributive più basse. Fu quello motivo per cui si introdusse l’elemento perequativo, serviva ad arrotondare l’aumento e arrivare alla soglia degli 85 euro.
Una soluzione che trovò il favore dei sindacati in nome di una solidarietà tra lavoratori, e che comunque comportò non pochi problemi. Come sicuramente il ministro ricorderà, essendo l’elemento perequativo una voce temporanea e provvisoria, non poteva incidere sulla quota A di pensione, né tantomeno poteva essere conteggiato ai fini della buonuscita finale, fosse essa trattamento di fine rapporto o di fine servizio (TFR o TFS). Soltanto con i contratti 2019-2021 (che sono stati siglati con gran ritardo nel 2022) quella voce ha perso la sua caratteristica di provvisorietà ed è stata assorbita all’interno dello stipendio tabellare, con tutte le conseguenze previdenziali del caso.
Ecco, caro ministro, questa è la realtà dei fatti. Ora siamo in tutt’altra fase. Il problema non è come far arrivare le fasce più retributive più deboli alla soglia di decenza minima di un aumento più volte promesso. La questione è ben diversa e riguarda come impedire che un vantaggio fiscale, già concesso, si tramuti in beffa per chi sta intorno alla quota limite, annullando ogni aumento se non addirittura finendo per tagliare lo stipendio.
Si tratta di un problema su cui la soluzione già c’è: basta considerare neutri ai fini del taglio del cuneo gli aumenti contrattuali. È una strada che il governo ha già adottato alla fine dello scorso anno, quando ha considerato neutrale ai fini del superamento della soglia dei 35 mila l’erogazione dell’indennità di vacanza contrattuale straordinaria.
È una soluzione che il ministro conosce bene, tanto che al giornalista che intervistandolo gli ha fatto notare questo precedente, Zangrillo ha risposto mettendo le mani avanti, osservando cioè che “una soluzione di questo tipo va concordata, come ovvio, con il ministero dell’Economia, perché presuppone un finanziamento aggiuntivo”.
Una risposta che anche in questo caso rimanda ai già citati pesci del motto popolare. Cerchiamo di capirci, stiamo parlando di un contratto per i dipendenti pubblici, in questo caso lo Stato è il datore di lavoro, quindi, il confronto è tra governo, nella sua interezza, e sindacati. È ovvio che per noi l governo è un’entità unica, a prescindere da chi è materialmente seduto al tavolo negoziale. Del resto nel settore privato nessun manager impegnato in una trattativa sindacale risponderebbe ai sindacati che per stabilire come ripartire un aumento bisogna prima coinvolgere il responsabile dell’area finanziaria.
Ognuno, quindi, faccia il suo mestiere. Noi come sindacati abbiamo posto un problema e indicato anche una soluzione, il governo ci dia una risposta concreta, rimanendo sul tema, e certo la soluzione non può essere dare gli aumenti solo a chi sta sotto la soglia dei 35 mila euro. Proposte del genere le considereremmo pesci, e non abbiamo alcuna intenzione di prenderli in faccia.