Pensioni, Fosche previsioni nel Def 2024

Tratto da pensionioggi.it

Con i numeri indicati nel DEF 2024 recentemente approvato dal Consiglio dei Ministri è necessario modificare radicalmente il sistema previdenziale italiano.


Un paio di settimane fa il Consiglio dei Ministri ha approvato il DEF con numeri e previsioni che, per quanto riguarda l’ambito previdenziale, rivelano un sistema pensionistico sempre più in affanno e con costi sempre più difficili da sostenere. Nonostante da alcuni anni siano state approvate misure sempre più rigide, tra cui l’ultima versione di Quota 103 con il calcolo contributivo, il costo delle pensioni in Italia continua ad aumentare in maniera esponenziale.

Del resto, i numeri parlano chiaro con costi che già quest’ano saranno di 337,4 miliardi e che aumenteranno del 2,4% nel 2025 (345,7 miliardi) del 3,1% nel 2026 (356,3 miliardi) e del 3,3% nel 2027 (368,1 miliardi) con un’incidenza sul PIL di oltre il 15%. La Ragioneria Generale dello Stato, poi, quella che ha stoppato l’anticipo del Tfs agli statali per mancanza di fondi, si è spinta oltre affermando che il costo della previdenza in Italia aumenterà progressivamente raggiungendo il 17% del PIL nel 2040.

Gli aumenti dei costi della previdenza causati soprattutto dall’inflazione e dal numero delle pensioni determinato dall’aumento dell’aspettativa di vita metteranno in crisi il sistema che tra una ventina d’anni potrebbe andare in tilt. Il nostro sistema a ripartizione per essere in equilibrio abbisogna che ci siano molti lavoratori che versano contributi e meno pensionati ed inoltre che gli assegni previdenziali siano corrisposti per non più di venti/venticinque anni. Con la drastica denatalità che attanaglia l’Italia ormai da oltre trent’anni e dove non si potrà invertire radicalmente la rotta perché ormai è assodato che in tutto il mondo occidentale le famiglie mettono al mondo uno o al massimo due figli questo sistema a ripartizione non consentirà più a tutti di avere una pensione adeguata alle necessità della vita una volta terminato il percorso lavorativo. Con oltre ventidue milioni di pensioni erogate ogni anno dall’INPS, una natalità che continuamente fa record negativi (nel 2023 appena 380.000 nuovi nati) e con un’aspettativa di vita (83,1 anni) che pone l’Italia al secondo posto nel mondo e che costantemente aumenta non ci vuole molto a capire che questo sistema tra una ventina d’anni rischia di implodere con enormi problemi di ordine sociale.

Si poteva sopperire a tutto ciò con la previdenza complementare che però in Italia stenta a decollare con appena il 36% di adesioni contro l’84% della Germania e il 93% dei Paesi Bassi, ma questo istituto, pur se presente nell’ordinamento italiano da vent’anni per una scarsa educazione finanziaria, a causa di stipendi bassi, poca attenzione da parte dei Governi che non l’hanno mai implementata con maggiore deducibilità e minore tassazione e per motivi ideologici non riesce a far breccia nelle menti delle giovani generazioni.

A questo punto non rimane che cominciare a discutere di una forma mista di previdenza costituita da ripartizione e capitalizzazione perché non è più possibile che l’enorme somma dei versamenti contributivi previdenziali effettuati ogni anno dagli italiani non venga investita ma soltanto destinata a pagare le pensioni a chi è già pensionato.

Una riflessione, infine, andrebbe poi fatta sul discorso dei robot e dell’intelligenza artificiale e su come introdurre una tassazione, almeno parziale, su questi strumenti che stanno stravolgendo il lavoro umano.

Come si vede, quindi, è necessario cambiare completamente il modo di affrontare il nodo della previdenza in Italia per evitare, come affermato anche dalla Presidente Meloni, che questo problema nei prossimi decenni generi uno scontro sociale. La nostra classe dirigente politica troppo interessata al consenso immediato sarà in grado di affrontare queste nuove sfide che la società in continua evoluzione ci impone?

Statali, aumenti azzerati a 35 mila euro. La soluzione si allontana

Tratto da PAmagazine

“Dove vai? Porto pesci”. È un antico detto, frutto della grande saggezza popolare, con cui i nostri vecchi fulminavano chi menava il can per l’aia o provava a dare risposte evasive a problemi molto concreti. Una frase che mi rimbomba nella mente da quando ho letto come il ministro Paolo Zangrillo vorrebbe risolvere un problema che stiamo sollevando da mesi: come evitare, cioè, che i prossimi aumenti contrattuali dei dipendenti pubblici possano essere vanificati dal limite di 35 mila euro di reddito, oltre il quale si perde il diritto al taglio del cuneo fiscale.

Il governo, infatti, ha stabilito che se si supera anche di un solo euro quella quota retributiva annua il lavoratore dovrà pagare all’Inps l’intera quota contributiva (il 9,8% dello stipendio) e non le aliquote ridotte (il 2,9% per chi guadagna non più di 25 mila euro e il 3,8% per chi sta nella fascia fino a 35 mila euro). È facile capire che, per chi sta vicino a quel limite contributivo (e cioè gran parte dei dipendenti pubblici), il rischio assai concreto sarebbe quello di non vedere in busta paga alcun beneficio se non addirittura di trovarsi calla fine on un assegno più leggero di quello precedente.

Intervistato dal Messaggero il ministro della Pubblica Amministrazione ha derubricato la questione a mero “effetto automatico del vantaggio fiscale” del taglio del cuneo, e ha proposto come soluzione il recupero di una vecchia ricetta. “Anni fa, in una situazione simile”, ha ricordato il ministro, “si pensò a un elemento perequativo della retribuzione, per cui le risorse dei contratti collettivi furono distribuite in modo percentualmente differenziato”. Eccoli qui i pesci di cui parlavamo all’inizio. Il ministro, infatti, non può non sapere che la soluzione trovata per il contratto 2016-2018, nasceva da un contesto molto differente: il governo di allora (guidato da Paolo Gentiloni) doveva garantire a ogni lavoratore l’aumento di 85 euro al mese promessi da tempo, ma l’aumento percentuale del 3,48% stabilito al tavolo sindacale non bastava a far raggiungere quella cifra alle fasce retributive più basse. Fu quello motivo per cui si introdusse l’elemento perequativo, serviva ad arrotondare l’aumento e arrivare alla soglia degli 85 euro.

Una soluzione che trovò il favore dei sindacati in nome di una solidarietà tra lavoratori, e che comunque comportò non pochi problemi. Come sicuramente il ministro ricorderà, essendo l’elemento perequativo una voce temporanea e provvisoria, non poteva incidere sulla quota A di pensione, né tantomeno poteva essere conteggiato ai fini della buonuscita finale, fosse essa trattamento di fine rapporto o di fine servizio (TFR o TFS). Soltanto con i contratti 2019-2021 (che sono stati siglati con gran ritardo nel 2022) quella voce ha perso la sua caratteristica di provvisorietà ed è stata assorbita all’interno dello stipendio tabellare, con tutte le conseguenze previdenziali del caso.

Ecco, caro ministro, questa è la realtà dei fatti. Ora siamo in tutt’altra fase. Il problema non è come far arrivare le fasce più retributive più deboli alla soglia di decenza minima di un aumento più volte promesso. La questione è ben diversa e riguarda come impedire che un vantaggio fiscale, già concesso, si tramuti in beffa per chi sta intorno alla quota limite, annullando ogni aumento se non addirittura finendo per tagliare lo stipendio.

Si tratta di un problema su cui la soluzione già c’è: basta considerare neutri ai fini del taglio del cuneo gli aumenti contrattuali. È una strada che il governo ha già adottato alla fine dello scorso anno, quando ha considerato neutrale ai fini del superamento della soglia dei 35 mila l’erogazione dell’indennità di vacanza contrattuale straordinaria.

È una soluzione che il ministro conosce bene, tanto che al giornalista che intervistandolo gli ha fatto notare questo precedente, Zangrillo ha risposto mettendo le mani avanti, osservando cioè che “una soluzione di questo tipo va concordata, come ovvio, con il ministero dell’Economia, perché presuppone un finanziamento aggiuntivo”.

Una risposta che anche in questo caso rimanda ai già citati pesci del motto popolare. Cerchiamo di capirci, stiamo parlando di un contratto per i dipendenti pubblici, in questo caso lo Stato è il datore di lavoro, quindi, il confronto è tra governo, nella sua interezza, e sindacati. È ovvio che per noi l governo è un’entità unica, a prescindere da chi è materialmente seduto al tavolo negoziale. Del resto nel settore privato nessun manager impegnato in una trattativa sindacale risponderebbe ai sindacati che per stabilire come ripartire un aumento bisogna prima coinvolgere il responsabile dell’area finanziaria.

Ognuno, quindi, faccia il suo mestiere. Noi come sindacati abbiamo posto un problema e indicato anche una soluzione, il governo ci dia una risposta concreta, rimanendo sul tema, e certo la soluzione non può essere dare gli aumenti solo a chi sta sotto la soglia dei 35 mila euro. Proposte del genere le considereremmo pesci, e non abbiamo alcuna intenzione di prenderli in faccia.

Privacy nel pubblico impiego: un equilibrio delicato tra trasparenza e riservatezza

Tratto da federprivacy.org

Nel contesto del pubblico impiego, la questione della privacy emerge come un nodo cruciale che richiede un equilibrio delicato tra la trasparenza delle istituzioni e la tutela dei diritti individuali dei lavoratori. Questo equilibrio è particolarmente evidente in diverse aree, che vanno dalla valutazione della performance alla pubblicazione dei dati reddituali dei dirigenti. Occorre bilanciare l’importanza di garantire la privacy dei dipendenti pubblici e l’esigenza di assicurare la trasparenza e l’efficienza delle amministrazioni.


Valutazione della performance e privacy – La valutazione della performance dei dipendenti pubblici è un aspetto cruciale per garantire l’efficienza e la qualità dei servizi erogati dalle amministrazioni. Tuttavia, questo processo deve essere gestito con attenzione per evitare violazioni della privacy dei lavoratori. È fondamentale che le valutazioni siano basate su criteri oggettivi e trasparenti, e che i dati personali dei dipendenti siano trattati in conformità alle leggi sulla privacy vigenti.

Controlli disciplinari: in presenza e a distanza – I controlli disciplinari rappresentano uno strumento importante per garantire il rispetto delle regole e dei comportamenti etici all’interno del pubblico impiego. Tuttavia, devono essere condotti nel rispetto della privacy dei dipendenti. Sia i controlli in presenza che quelli a distanza devono essere regolamentati da procedure chiare e trasparenti, che assicurino il rispetto dei diritti individuali dei lavoratori e prevedano misure di sicurezza per proteggere i dati personali.

Riservatezza dei lavoratori e trasparenza delle amministrazioni – La privacy dei lavoratori e la trasparenza delle amministrazioni possono sembrare obiettivi contrastanti, ma in realtà sono entrambi fondamentali per il corretto funzionamento del pubblico impiego. Le amministrazioni devono rispettare la riservatezza dei dati personali dei dipendenti, garantendo al contempo la trasparenza nei processi decisionali e nell’uso delle risorse pubbliche. Questo equilibrio può essere raggiunto attraverso politiche e procedure chiare che definiscano i limiti dell’accesso ai dati personali e promuovano la divulgazione delle informazioni pertinenti per il pubblico.

Riservatezza e accesso agli atti dell’amministrazione – Il diritto di accesso agli atti dell’amministrazione è un principio fondamentale della democrazia, ma deve essere bilanciato con la necessità di proteggere la riservatezza dei dati sensibili. Le amministrazioni devono garantire che le richieste di accesso siano gestite in conformità con le leggi sulla privacy e che vengano adottate misure adeguate per proteggere i dati personali dei dipendenti e dei cittadini.

Pubblicazione dei dati reddituali dei dirigenti – La pubblicazione dei dati reddituali dei dirigenti è un aspetto importante per promuovere la trasparenza e la responsabilità nel pubblico impiego. Tuttavia, è essenziale che questa pratica avvenga nel rispetto della privacy dei dirigenti e che vengano adottate misure per proteggere i loro dati personali da usi impropri o abusi.

Dati relativi a concorsi e selezioni – I dati relativi a concorsi e selezioni devono essere gestiti con particolare attenzione per garantire la parità di trattamento e il rispetto della privacy dei candidati. Le informazioni personali dei partecipanti devono essere trattate in modo confidenziale e utilizzate solo per gli scopi previsti, garantendo che i processi di selezione siano equi e trasparenti.

In conclusione, la privacy nel pubblico impiego è una questione complessa che richiede un approccio equilibrato che tenga conto sia della trasparenza delle istituzioni che della tutela dei diritti individuali dei lavoratori. È fondamentale che le amministrazioni adottino politiche e procedure chiare e trasparenti per garantire il rispetto della privacy dei dipendenti mentre assicurano la trasparenza e l’efficienza dei loro processi. Solo attraverso questo equilibrio sarà possibile promuovere un pubblico impiego responsabile e orientato al servizio pubblico.

 

Bonus mamme, da maggio sarà disponibile anche a chi lavora nella Pa: a maggio 700 euro di arretrati

Tratto da quifinanza.it

Il bonus mamme lavoratrici si estende alle dipendenti della Pa a partire da maggio 202.


Nella Pubblica Amministrazione, il bonus per le mamme si è fatto attendere a lungo. La maggior parte delle dipendenti pubbliche con figli piccoli ancora non lo ha ricevuto. Il sistema NoiPA, utilizzato per la gestione degli stipendi del pubblico impiego, doveva essere adeguato in primo luogo. Era necessaria una funzionalità specifica per consentire agli uffici responsabili dei pagamenti delle diverse Pubbliche Amministrazioni di inserire i fondi relativi allo sgravio in busta paga. Finalmente, questi fondi arriveranno a maggio.

Anche loro quindi inizieranno a beneficiare dello sgravio contributivo fino a 3mila euro all’anno, a partire dallo stipendio di maggio 2024.

Bonus mamme esteso a chi lavora nella Pa da maggio 2024

Le dipendenti statali che non hanno ancora ricevuto il bonus, a maggio riceveranno anche gli arretrati. Quindi, ci saranno persone che il prossimo mese vedranno un aumento di stipendio di fino a 750 euro grazie a questo incentivo. Inoltre, ci sono pressioni affinché la platea delle lavoratrici aventi diritto venga allargata. Attualmente, dalla decontribuzione sono escluse le mamme con contratti a tempo determinato.

Così, dopo le lavoratrici del settore privato, anche le lavoratrici pubbliche otterranno finalmente l’aggiunta retributiva prevista dalla legge di bilancio di quest’anno a sostegno delle politiche della natalità, rimasta ferma fino a questo momento. Il ritardo nell’avvio dell’operazione è stato determinato da una serie di ostacoli burocratici che sono stati risolti solo nelle settimane scorse. Pertanto, anche le dipendenti pubbliche con contratti a tempo indeterminato e due o più figli potranno contare sullo sgravio a partire dal prossimo mese.

Cos’è e come si ottiene il bonus

Il bonus per le mamme lavoratrici, previsto dalla Manovra di Bilancio per il 2024, consiste in un’esenzione dal pagamento dei contributi pensionistici per alcune categorie di lavoratrici con almeno due figli, portando a un incremento (anche se modesto) dello stipendio. Questo bonus, variabile in base al reddito Irpef, non richiede una richiesta esplicita, ma verrà automaticamente riconosciuto dal datore di lavoro da gennaio 2024 a dicembre 2026, a meno che non vengano meno i requisiti per ottenerlo.

Attualmente, le lavoratrici devono presentare una dichiarazione scritta all’azienda in cui lavorano per confermare di soddisfare i requisiti. In futuro, verrà istituita una piattaforma dedicata sul sito dell’Inps, dove le mamme potranno autonomamente comunicare i codici fiscali dei propri figli per ottenere il sostegno.

Chi ha diritto al bonus mamme lavoratrici

Il bonus sarà erogato esclusivamente alle donne con due o più figli o figlie a carico, che siano lavoratrici dipendenti del settore pubblico o privato con contratti a tempo indeterminato, part-time, contratti di somministrazione a tempo indeterminato o di apprendistato. Le donne con due figli avranno diritto al bonus solo per il 2024 o fino a quando il più piccolo dei figli compie 10 anni. Per chi ha tre o più figli, il bonus sarà erogato da gennaio 2024 al 31 dicembre 2026 o fino a quando il più piccolo dei figli compie 18 anni. Recentemente è stata aperta la possibilità anche alle mamme che lavorano nelle scuole.

In altre parole, il diritto al bonus cessa quando i figli minori raggiungono il limite di età stabilito dalla normativa o quando scade il periodo temporale indicato. Non ci sono restrizioni di età per i figli più grandi e non ci sono distinzioni per figli in affidamento o adottati. Inoltre, la normativa non specifica se il diritto al bonus viene perso nel caso in cui i figli non convivano con la madre o siano affidati esclusivamente al padre.

Ma attenzione, il bonus non sarà erogato alle madri con un solo figlio, anche se quest’ultimo ha disabilità, alle lavoratrici domestiche, alle pensionate, alle lavoratrici con contratti a tempo determinato, alle professioniste autonome, alle disoccupate e alle collaboratrici occasionali.

Bonus mamme, a quanto ammonta?

L’importo del bonus per le mamme lavoratrici del 2024 non è fisso, ma varia in base al reddito della dipendente. La trattenuta dei contributi previdenziali, pari al 9,19% della Retribuzione Annuale Lorda (Ral), o al 9,49% per le aziende con più di 15 dipendenti, viene corrisposta alle lavoratrici aventi diritto a partire da gennaio.

La soglia massima di esonero contributivo per la lavoratrice, riferita al periodo di pagamento mensile, è fissata a 250€ (calcolati come 3.000€ divisi per 12). Per i rapporti di lavoro instaurati o risolti nel corso del mese, questa soglia viene riproporzionata assumendo 8,06€ (calcolati come 250€ divisi per 31) per ogni giorno di fruizione dell’esonero contributivo.

Se la trattenuta dei contributi previdenziali supera i 3mila euro, la parte eccedente non sarà versata alla dipendente poiché il tetto massimo per la decontribuzione è fissato a 3mila euro.

I contributi previdenziali vengono trattenuti dallo stipendio lordo, e su tale importo rimanente vengono calcolate le imposte. Ad esempio, se una lavoratrice con contratto a tempo indeterminato presso un’azienda con più di 15 dipendenti ha una Ral di 25mila euro, fino a dicembre 2023 pagava le imposte su 22.627,50 euro (25.000 – 2.372,50), mentre da gennaio 2024 le versa su 25.000€, a causa dello sconto previsto dal bonus per le mamme lavoratrici. Di conseguenza, la quota delle imposte è più elevata nel 2024.

Il bonus per le mamme lavoratrici del 2024 è alternativo al taglio del cuneo fiscale, che si applica a tutti i lavoratori con una Ral fino a 35.000€, e pertanto annulla i suoi benefici fino alla decadenza dei requisiti per l’erogazione del bonus.

Si allarga la platea

Per quanto riguarda i dettagli, la misura coinvolge complessivamente quasi un milione di lavoratrici. A quelle della Pubblica Amministrazione si aggiungono le lavoratrici madri del settore privato con almeno tre figli, di cui uno sotto i 18 anni, che sono oltre 110mila, e le lavoratrici con due figli, di cui uno con meno di 10 anni, che sono circa 600mila. Queste ultime hanno diritto allo sgravio solo quest’anno.

Ma attenzione, perché il bonus non viene assegnato automaticamente. È necessario fare una richiesta esplicita, comunicando i codici fiscali dei figli all’Inps tramite il datore di lavoro. Come chiarito dall’Inps con una specifica circolare, le lavoratrici pubbliche e private con un contratto a tempo indeterminato possono comunicare al proprio datore di lavoro la loro intenzione di usufruire dell’esonero, fornendo al datore di lavoro il numero dei figli e i relativi codici fiscali.

Pensioni, dopo la stretta sulle anticipate calano gli assegni: nei primi tre mesi erogati solo 187.223 trattamenti

Tratto da ilsole24ore.com

Con lo scemare degli effetti di Quota 100 e l’arrivo di Quota 103, ora in versione «penalizzata», nel primo triemestre del 2024 la frenata maggiore si registra nel pubblico impiego (-34,9%). Dopo la stretta dell’ultima manovra crolla l’accesso a Opzione donna.


Anche per lo scemare dell’effetto Quota 100 e per l’arrivo di Quota 103, ora in versione “penalizzata”, rallenta in maniera significativa la corsa al pensionamento, soprattutto nel pubblico impiego. Nei primi tre mesi del 2024 l’Inps ha liquidato 187.223 nuove pensioni, con un calo del 16,16% rispetto allo stesso periodo del 2023. E i trattamenti anticipati sono stati 56.660, pari a circa il 30% del totale. E’ quanto emerge dall’Osservatorio dell’ente sul monitoraggio dei flussi di pensionamento. L’importo medio delle nuove pensioni è di 1.225 euro, con grandi oscillazioni tra le varie categorie: 888 euro medi per gli assegni di vecchiaia e 2.017 euro per quelli anticipati, legati a un numero più alto di contributi. Resta marcato il «gender gap previdenziale». Complessivamente i nuovi trattamenti erogati alle donne valgono in media 999 euro contro i 1.473 euro per gli uomini: il 32% in meno. I dati Inps evidenziano anche che, dopo le ulteriori restrizioni introdotte dall’ultima legge di bilancio, crolla l’accesso a Opzione donna: i pensionamenti sono stati appena 1.276 mentre nell’intero 2023 avevano raggiunto quota 11.514.

Quasi 73mila pensioni di vecchiaia e 56.660 «anticipate»

L’Inps fa sapere che il totale delle pensioni con decorrenza nel 2023 è di 819.236, per un importo medio mensile alla decorrenza di 1.206 euro. Gli assegni liquidati con decorrenza primo trimestre 2024 sono stati 187.223. In particolare, nei primi tre mesi di quest’anno sono stati erogate 72.829 pensioni di vecchiaia, 56.660 anticipate, 8.756 di invalidità e 48.978 ai superstiti.

Nel pubblico impiego oltre la metà dei trattamenti sono anticipati

Il monitoraggio mette in evidenza che le nuove pensioni liquidate con decorrenza tra gennaio e marzo 2024 sono 86.031 per i lavoratori dipendenti del settore privato (importo medio mensile di 1.446 euro) e 57.332 per l’insieme dei lavoratori autonomi, ovvero coltivatori diretti, artigiani e commercianti (867 euro in media al mese). I trattamenti erogati ai dipendenti pubblici sono stati 18.905 per un importo medio di 2.268 euro, grazie soprattutto al peso delle pensioni anticipate che assorbono oltre la metà degli assegni liquidati (10.287 con un importo medio di 2.483 euro). Nello stesso periodo ai lavoratori parasubordinati sono stati destinati 9.752 trattamenti (221euro in media al mese).

Il calo dei pensionamenti con il picco nella Pa

La sola categoria di pensioni in crescita nel primo trimestre è quella degli assegni sociali (24.955 assegni per un importo in media di 497 al mese). La gestione dove si è registrato il calo più consistente negli accessi al pensionamento è quella dei dipendenti pubblici: i trattamenti liquidati sono scesi da 29.059 a 18.905 (-34,94%) con un rallentamento riscontrato per gli assegni di vecchiaia, per quelli anticipati e soprattutto per le invalidità (da 1.192 a 225 pensioni) e i superstiti (da 11.076 a 4.602). Per i 10.287 trattamenti anticipati erogati nel pubblico impiego (in calo del 16,3% sullo stesso periodo del 2023) l’età media di accesso alla pensione sale a 61,8 anni.

Ecco la deliberazione n. 158 del 18 aprile 2024 “Approvazione disegno di legge: ‘Modifiche ed integrazioni di norme’” con la quale la Giunta ha approvato la riscrittura dell’articolo relativo alla progressione dei dipendenti regionali assunti in base alla legge regionale n. 20 del 1999

Con deliberazione n. 158 del 18 aprile 2024 la Giunta regionale ha approvato il disegno di legge recante: ‘Modifiche ed integrazioni di norme’.

Il testo del DDL e la relazione di accompagnamento sono allegati alla delibera (SCARICA LA DELIBERA).

Mi riprometto di studiare l’articolo con maggiore attenzione, ma, ad un prima lettura, sembrerebbe che non si parli più, per il personale in possesso del diploma di laurea e con esperienza lavorativa maturata nell’amministrazione regionale, di collocamento nel livello contrattuale e qualifica corrispondenti al titolo di studio previsto per l’accesso dall’esterno né per il personale assunto ai sensi dell’art. 4 della L.r. n. 20/99 e smi né per altro personale.

La riscrittura dell’art. 74 della L.r. n. 3/2024 stabilisce, infatti, che “nell’ambito delle procedure di progressione tra le categorie del CCRL del personale del comparto non dirigenziale della Regione siciliana, il 50% delle posizioni disponibili è riservato al personale in possesso del requisito del titolo di studio necessario per l’accesso alla categoria superiore ed esperienza almeno decennale nella qualifica immediatamente inferiore anche assunto ai sensi dell’art. 4 della L.r. n. 20/99 e smi”.

Il nuovo articolo sembrerebbe limitarsi a riservare il 50% delle posizioni disponibili al personale in possesso del requisito del titolo di studio necessario per l’accesso alla categoria superiore ed esperienza almeno decennale nella qualifica immediatamente inferiore anche per il personale assunto ai sensi dell’art. 4 della L.r. n. 20/99 e smi”.

Richiesta convocazione per definizione criteri di attuazione delle progressioni tra le aree

Con la Legge di stabilità regionale 2024-2026 n. 1 del 16 gennaio 2024, art. 7, il legislatore regionale ha recepito la normativa statale in materia di revisione del sistema di classificazione del personale, stanziando a decorrere dall’esercizio finanziario 2024, per le progressioni verticali, un importo pari a euro 3.410.095,00, comprensivo degli oneri riflessi a carico dell’amministrazione e dell’IRAP.
Inoltre, con l’art. 50 della legge regionale 31 gennaio 2024, n. 3, lo stesso legislatore ha stabilito di avviare il processo di potenziamento della dotazione organica del personale della Regione Siciliana, sia per il personale del comparto non dirigenziale che dirigenziale, stanziando euro 20.050.000,00 per l’anno 2024, euro 30.707.814,53 per l’anno 2025 ed euro 40.228.683,62 per l’anno 2026.
Premesso quanto sopra, atteso che l’art. 1 bis del d.lgs. 165/2001 ha previsto che: “Fatta salva una riserva di almeno il 50 per cento delle posizioni disponibili destinata all’accesso dall’esterno, le progressioni fra le aree e, negli enti locali, anche fra qualifiche diverse, avvengono tramite procedura comparativa basata sulla valutazione positiva conseguita dal dipendente negli ultimi tre anni in servizio, sull’assenza di provvedimenti disciplinari, sul possesso di titoli o competenze professionali ovvero di studio ulteriori rispetto a quelli previsti per l’accesso all’area dall’esterno, nonché sul numero e sulla tipologia degli incarichi rivestiti, si chiede alla S.V. di convocare le Organizzazioni sindacali per definire criteri e modalità di attuazione delle progressioni verticali finanziate come sopra specificato.

La sedia vuota – Perché non bisogna sprecare il capitale umano della Pubblica amministrazione

Vi segnalo un interessante articolo di Francesco Verbaro pubblicato su linkiesta.it (che potete leggere più in basso) a proposito delle carenze di personale in tutta la pubblica amministrazione.

Verbaro suggerisce, in estrema sintesi, non un prolungamento dell’età lavorativa, ma di dare al datore di lavoro, nell’attesa di concorsi e selezioni, uno strumento temporaneo per soddisfare i propri fabbisogni chiedendo al lavoratore qualificato di permanere in servizio qualche anno in più, anche con condizioni (orari, lavoro da remoto) diversi.

Mi permetto, sommessamente, di ricordare a Verbaro che la fuga dei dipendenti pubblici è determinata soprattutto dal regime di incertezza che ruota attorno al regime pensionistico. Di anno in anno assistiamo ad accese discussioni sulle pensioni che parlano di giri di vite sulle uscite e tagli dell’assegno (come introduzione di coefficienti peggiorativi nel calcolo della quota retributivo per coloro che beneficiano ancora del sistema misto o il ricalcolo contributivo). Se il rischio è stare di più per prendere di meno. penso che pochi accetteranno di rimanere.

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Di

È sempre più difficile attrarre nuovi laureati nel settore pubblico, quindi sarebbe giusto permettere al personale non dirigenziale dei livelli più alti della Pa di rimanere qualche anno in più per attività di formazione e tutoraggio.


Tempi nuovi e difficili richiedono misure, strumenti e idee innovative. Soprattutto per aiutare la nostra Pubblica amministrazione che oggi si trova a reclutare con approcci e strumenti vecchi in un contesto sempre più complesso. I dati Istat sulla natalità e sulla restrizione della forza lavoro ci dovrebbero far capire che il peggio per l’Italia deve ancora venire. Il reclutamento tradizionale, anche nella sua forma banalizzata dei quiz, non è sufficiente in un contesto storico di emergenza delle risorse umane. I giovani laureati sono pochi, la loro età media è elevata e rifiutano spesso di allontanarsi da casa o vivere e lavorare in città dove il costo della vita è più elevato.

Se nel settore pubblico non riusciremo a remunerare il disagio, il maggior costo della vita e il famoso merito, avremo un reclutamento sempre parziale e fallimentare. Occorre pensare a strumenti nuovi. Si è parlato, ad esempio, dell’apprendistato, ma anche questo strumento, difficile da comprendere e gestire per i nostri deboli uffici del personale avrà bisogno dei tempi lunghi della Pa per essere adottato. Lo stesso si può dire del reclutamento con inquadramento nella quarta Area, per assumere gli esperti che si intendono internalizzare. Un cambio di mentalità per la Pubblica amministrazione necessario anche alla luce della situazione finanziaria del Paese e delle nuove regole europee sul Patto di stabilità.

Occorre pertanto valorizzare e adottare alcuni strumenti che consentano di muoversi meglio in un contesto caratterizzato da scarsità di risorse umane, da incapacità di reclutamento e lenta, troppo lenta, trasformazione digitale. Quest’ultima insieme all’uso dei big data amministrativi potrebbe portarci, in brevissimo tempo, a poter operare ed erogare servizi con meno personale, ma più qualificato.

Per questo diventa ancora più importante la formazione. Non a pioggia o come adempimento, ma mirata per recuperare nell’immediato quelle competenze mancanti e necessarie iniziando a formare quelle persone, che sono meno distanti dal profilo necessario. Bisogna scegliere il settore in cui si può colmare con minore sforzo e in tempi brevi il divario di competenze. Sarà infatti difficile rimediare ad anni di abbandono del personale con una formazione uguale per tutti, in un contesto in cui le risorse destinate alla formazione sono scarse e l’adempimento formale da remoto risulta inutile, rispetto all’emergenza. Occorre intervenire sulle competenze necessarie e prioritarie che richiedono una formazione mirata rispetto ad alcuni fabbisogni. Questa scelta aiuterebbe a contrastare il sottoutilizzo dei dipendenti della Pa.

Il ministro per la Pubblica amministrazione Paolo Zangrillo ha ricordato quanto è assurdo veder spende meno in formazione nel settore con l’età media dei lavoratori più elevata. Addirittura nel caso delle amministrazioni centrali è ancora vietato, secondo una assurda norma del decreto legge del 2010 che nessuno ha la buona creanza di cancellare. In questo senso è utile guardare a come il settore privato tenti di non perdere nell’immediato quelle competenze preziose che stanno per andare in pensione, trattenendole al lavoro con incentivi. Su questo occorre superare pregiudizi e mali italiani oltre che certe prassi patologiche. Non si tratta di abolire la legge Madia del 2014, odiata da molti grand commis e baroni, ma di prevedere un mantenimento sul posto di lavoro per quelle competenze operative non facili da reperire nel breve periodo.

Nel Paese dove si entra più tardi nel mercato del lavoro e si vuole uscire prima, e quindi con un’età media di pensionamento reale più bassa, esistono tanti lavoratori disponibili a lavorare ancora qualche mese o anno in più oltre al diritto o al limite di pensionamento. Non si tratta di introdurre un diritto in capo al lavoratore al prolungamento dell’età lavorativa, ma di dare al datore di lavoro, nell’attesa di concorsi e selezioni, uno strumento temporaneo per soddisfare i propri fabbisogni chiedendo al lavoratore qualificato di permanere in servizio qualche anno in più, anche con condizioni (orari, lavoro da remoto) diversi. Anche per attività di tutoraggio e formazione, per le quali non dovrebbe valere la legge Madia.

In via sperimentale e al fine di prevenire esperienze patologiche come quelle vissute nel primo decennio di questo secolo con il trattenimento in servizio fino a settanta anni a valere sulle risorse assunzionali, questa volta si tratterebbe di consentire l’applicazione di questa proposta solo per il personale non dirigenziale collocato nei livelli elevati di inquadramento. Di dirigenti ne abbiamo anche troppi e spesso la loro permanenza porta a mantenere in vita uffici inutili e a rallentare la razionalizzazione delle amministrazioni. Mantenere in servizio per qualche anno alcune competenze, specie nelle amministrazioni più piccole, potrebbe aiutare molto la Pa, specie in un momento difficile in cui aumentano i compiti e non si trovano le competenze.

Con l’aumento dell’aspettativa di vita, in molti ambiti del mercato del lavoro assistiamo non solo a richieste di pensionamento anticipato, ma anche a disponibilità di permanenza in servizio oltre eventuali limiti di pensionamento e oltre il requisito minimo. Per affrontare le emergenze in atto, serve maggiore flessibilità e discrezionalità e non tetti e misure flat. Questo richiederà la necessità di porre fiducia nella dirigenza, che anche in questo ambito oggi vitale, quello della gestione delle risorse umane, non dovrà aver paura di valutare e decidere.

Zangrillo, carriera dipendenti pubblici legata a formazione. Intervento ministro PA all’Economic forum ‘Giannini’ di Chiavari

Paolo Zangrillo 2022Fonte ansa.it

La carriera dei dipendenti pubblici sarà legata alla formazione”.

Lo ha annunciato Paolo Zangrillo, ministro della Pubblica Amministrazione nell’intervento inviato all’Economic Forum Giannini di Chiavari, una due giorni di dibattiti nel nome di Amadeo Peter Giannini, il fondatore della Bank of America, di origini liguri.
“Non può esserci una buona crescita senza una buona amministrazione” – ha spiegato Zangrillo parlando della riforma della Pubblica Amministrazione – Non può esserci una buona crescita senza una buona amministrazione che passa dalla formazione.

Rafforzare la capacità amministrativa vuol dire risparmiare miliardi di euro”.

Regione, giunta approva ddl su rilievi del governo nazionale “Collegato”. Prevista la riscrittura dell’articolo relativo alla progressione dei dipendenti regionali assunti in base alla legge regionale n. 20 del 1999

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Approvato dalla giunta il disegno di legge “Impegni governativi” con cui il governo regionale risponde ai rilievi effettuati dalla presidenza del Consiglio dei ministri sulle norme del “collegato” alla legge di Stabilità della Sicilia.

Per un gruppo di articoli, impugnati innanzi alla Corte Costituzionale, si propone direttamente l’abrogazione, mentre per altri, sulla base della “leale collaborazione fra lo Stato e la Regione” e “nel rispetto degli impegni assunti dal governo regionale per superare le ipotesi di incostituzionalità”, viene proposta la modifica.

In particolare, il presidente della Regione, che firma il disegno di legge, ha proposto, tra gli altri, la riformulazione di articoli considerati caratterizzanti per il loro valore sociale. Tra queste, la norma che prevede gli incentivi per i medici impiegati in strutture periferiche o di provincia e quella per l’adeguamento tariffario delle strutture riabilitative per disabili psico-fisico sensoriali, per le comunità terapeutiche assistite, per le residenze sanitarie assistenziali e per i centri diurni per soggetti autistici.

Prevista anche la riscrittura dell’articolo relativo alla progressione dei dipendenti regionali assunti in base alla legge regionale n. 20 del 1999, “Nuove norme in materia di interventi contro la mafia e di misure di solidarietà in favore delle vittime della mafia e dei loro familiari”, riservando il 50 per cento delle posizioni disponibili ed estendendo il beneficio a tutto il personale in possesso dei requisiti richiesti. Inoltre, fino al 31 dicembre 2025 e nell’attesa che venga definita una disciplina statale, il ddl prevede che la legge 20 si applichi anche alle donne vittime di violenza con deformazione o sfregio permanente del viso e ai figli delle vittime di femminicidio.

Oltre alle norme del “collegato”, il testo approvato dalla giunta introduce anche alcune modifiche alla disciplina delle ex Province, fino all’approvazione dell’attesa legge nazionale di riforma degli enti di area vasta per l’introduzione dell’elezione a suffragio universale diretto degli organi. Nel rispetto della sentenza della Corte Costituzionale dello scorso luglio, infatti, il governo regionale prevede intanto l’indizione delle elezioni di secondo livello dei presidenti dei Liberi consorzi comunali e dei consigli metropolitani in una delle domeniche comprese tra il 6 e il 27 ottobre 2024. I commissari straordinari di nomina regionale, quindi, resteranno in carica soltanto fino alla costituzione dei nuovi organi.

Il testo del disegno di legge governativo sarà ora trasmesso all’Ars per la discussione e l’approvazione definitiva.