Il regolamento era pronto il 14 giugno, ma è stato pubblicato solo venerdì. Fuori tempo massimo: la riforma della burocrazia regionale, infatti, entrava in vigore quel giorno, e non tutti i dipartimenti sono riusciti a riassegnare gli incarichi — le oltre 1.400 poltrone che costituiscono l’ossatura della macchina Regione — avendo a disposizione un solo giorno per farlo.
Così, in questo momento, diversi uffici sono senza capo.
Il professor Filippo Fanini, primario all’ospedale Regina Elena di Roma, nel 1992 puntava a dirigere la Chirurgia plastica ricostruttiva alle Figlie di San Camillo. Poiché fu scelto un suo collega presentò ricorso al Tar. L’ha perso, ma quando è arrivata la sentenza – nel 2012 – era già in pensione. Seccato per aver atteso vent’anni, ha fatto causa al ministero della Giustizia. Ha ottenuto il risarcimento il 5 gennaio 2016. Non lo vedrà mai: è morto nel 2015. La sua battaglia sarebbe stata ancora lunga: per essere pagato avrebbe dovuto attendere quattro, cinque, sei anni.
Il cane si morde la coda
Il sistema giustizia accumula ritardi verso i suoi utenti e poi li indennizza sborsando centinaia di milioni attraverso le sentenze dei suoi stessi giudici, i quali – impegnati in questa abnorme fatica riparatoria – accumulano altri ritardi e futuri debiti. Lo Stato poi non stanzia abbastanza risorse per risarcire le vittime della giustizia lumaca e le costringe a fargli causa una seconda volta, imbarcandosi in un nuovo e defatigante contenzioso, che può arrivare fino al pignoramento nei confronti della pubblica amministrazione. Negli ultimi anni è diventata la regola e ha prodotto un ulteriore effetto: l’intasamento dei Tar, sommersi dai ricorsi dei cittadini in lotta con il ministero della Giustizia che non paga.