Giornali e politici. Ma come fanno a stupirsi che i consumi non ripartono?

Non so se ridere o piangere nel leggere articoli in cui ci si stupisce del fatto che i consumi non ripartono e che commercio e industria sono fermi.

Che la fiducia dei consumatori cresca o meno, ha poca importanza. Alla fine quelli che si spendono sono i soldi (e gli italiani ne hanno sempre meno) e non la fiducia.

E comunque, a proposito di soldi e fiducia, facciamo un breve esame della situazione attuale nel settore pubblico e privato.

Settore pubblico

  1. Non vengono rinnovati i contratti dei dipendenti pubblici che, da sempre, nei periodi di crisi, hanno svolto una funzione stabilizzatrice dell’economia interna (3,5 milioni di persone che, in passato, anche in periodo di crisi, hanno alimentato i consumi di generi alimentari, abbigliamento, ristorazione, turismo, etc.);
  2. Sono crollate tutte le certezze dei dipendenti pubblici che vengono continuamente attaccati e demonizzati da stampa e politica che li addita come la causa di tutti i mali. E l’incertezza non alimenta, certo, i consumi;
  3. Viene agitato lo spettro della mobilità e del licenziamento che li spinge a cercare (ma sempre più spesso non ci si riesce) di mettere da parte qualcosa per sopravvivere, qualora la situazione dovesse peggiorare ancora;
  4. Le continue modifiche al ribasso del sistema di calcolo delle pensioni e la prospettiva di ricevere una pensione che non consentirà un tenore di vita dignitoso, alimentano, paradossalmente, la propensione al risparmio, togliendo ulteriori risorse ai consumi.

Settore privato

Il 15 maggio scorso la Camera ha approvato in via definitiva la conversione in legge del decreto sul lavoro.

Secondo la propaganda fatta dal governo su stampa e tg, l’obiettivo del “decreto lavoro” è quello di dare una risposta urgente alla necessità di rilanciare l’occupazione, semplificando il ricorso all’apprendistato e al contratto a tempo determinato, per favorire l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro.

Ma le cose non stanno esattamente così.

Anche il Governo Renzi, infatti, parte dal falso presupposto che il problema principale del mercato del lavoro in Italia sia la rigidità dei contratti, non la carenza di domanda

Nonostante nel solo 2013 si siano persi 413mila posti di lavoro (dati Istat), si procede con una ulteriore flessibilizzazione dei contratti di lavoro, con la possibilità di rinnovare quelli a termine fino a otto volte in tre anni. Ciò significa la possibilità di spezzettare un rapporto di lavoro in contratti di quattro-cinque mesi, salvo ricominciare da capo, con un nuovo lavoratore/lavoratrice allo scadere dei tre anni.

È difficile che l’ulteriore precarizzazione dei rapporti di lavoro favorisca la ripresa economica, ovvero la competitività delle nostre imprese a livello nazionale.

Nella stessa direzione va la modifica dell’apprendistato, un vero e proprio ritorno indietro, con l’eliminazione sia dell’obbligo a garantire formazione, sia di quello ad assumere a tempo determinato almeno un venti per cento degli apprendisti prima di avviare nuovi contratti di questo tipo. La differenza tra contratti di apprendistato e contratti a termine si annulla di nuovo, pur rimanendo a livello formale.

E dunque si estende ancora la precarietà. Che penalizza i giovani e soprattutto le donne. Senza creare un solo posto di lavoro in più.

Perché sono loro i primi cui si applicherà questa doppia estensione della precarietà, fatta di contratti brevi senza alcuna ragionevole garanzia di stabilizzazione dopo tre anni di rinnovi (se va bene).

Per le donne, poi, vi saranno costi aggiuntivi. La possibilità di fare contratti brevi, rinnovabili più volte, consentirà ai datori di lavoro di ignorare del tutto legalmente la norma sul divieto di licenziamento durante il cosiddetto periodo protetto. Non occorrerà neppure più far firmare, illegalmente, dimissioni in bianco, o indagare, sempre illegalmente, sulle intenzioni procreative al momento dell’assunzione. Basterà fare loro sistematicamente contratti brevi, non rinnovandoli alla scadenza in caso di gravidanza. Con l’ulteriore conseguenza negativa che molte donne non riusciranno a maturare il diritto alla indennità di maternità piena. E faranno fatica a iscrivere il bambino all’asilo nido, dato che non potranno dimostrare di avere un contratto di lavoro almeno annuale.

Pensioni

C’è poi il nodo della previdenza, le pensioni calcolate con il contributivo tra dieci anni saranno pensioni da fame e costringeranno i governi ad interventi massicci a sostegno di pensionati che saranno nella fascia di povertà e di indigenza. Anche il nodo previdenziale assieme alla precarizzazione dei rapporti di lavoro rischia di generare un futuro non solo di precariato ma di miseria.

Pubblicato da benedettomineo

Dirigente sindacale Cobas/Codir