Statali, sì alla settimana di 4 giorni

Tratto da PAmagazine

Il caso più eclatante è quello di Intesa SanPaolo, la principale banca italiana, che dopo aver rotto l’unità del fronte datoriale, accettando unilateralmente la proposta dei sindacati di un aumento di ben 435 euro mensili (ratificato poi da tutte le altre imprese nel nuovo contratto dei bancari), ha anche sottoscritto un accordo aziendale estremamente innovativo che introduce la settimana lavorativa di 4 giorni, nei quali l’orario viene esteso a nove ore. E non è tutto, perché di tutte queste giornate, ben 120 saranno di lavoro a domicilio.

Un caso, quello di Intesa, che sta facendo scuola, visto che altri grandi gruppi si sono avviati in questa direzione, da Sace a Luxottica e altre ancora la stanno studiando seriamente. Il tema della settimana ultracorta si sta quindi imponendo nel dibattito sindacale, come era già accaduto con lo smart working, anche se stavolta, grazie a Dio, ci è stata risparmiata l’invenzione, alquanto provinciale, di un termine inglese che nessuno nel mondo anglosassone utilizza (in Gran Bretagna o negli Stati Uniti il lavoro a domicilio si chiama remote working, o flexible working, o mobile working, ma non certo smart).

Grande tema, quello della durata della settimana lavorativa, che inevitabilmente ha cominciato a circolare anche nel settore pubblico dove già il lavoro a domicilio è stato accettato solo come soluzione emergenziale durante la pandemia (chi si dimentica l’opposizione ferrea dell’ex ministro Renato Brunetta, ora presidente del Cnel). E infatti le reazioni da parte delle varie amministrazioni non giustificano ottimismi. Nessuno ancora ha affrontato esplicitamente il tema, ma come nel caso del lavoro domiciliare, si fa notare che soluzioni così innovative richiederebbero prima una generale riforma del sistema. Tutto ciò che va in direzione di una maggiore flessibilità, è la tesi di chi non vuole parlare di settimana ultracorta, richiede prima una profonda revisione dei meccanismi di analisi delle performance e di valutazione dell’efficienza. Non solo, si fa notare che servirebbe anche una seria ristrutturazione organizzativa, che non potrebbe non investire la formazione e i modelli di gestione del personale e la stessa dirigenza. La conclusione è che per imboccare questa strada più che di una riforma servirebbe una vera e propria rivoluzione del sistema amministrativo pubblico.

Ora, che non sia più tempo di mettere pezze a un tessuto fin troppo lacerato, come quello della Pubblica Amministrazione, non lo scopriamo oggi ma lo diciamo, per lo più inascoltati, da anni. Io personalmente mi sono sgolato nei convegni ed ho scritto, anche su queste colonne, non so quanti articoli per invocare una nuova visione del lavoro pubblico e investimenti adeguati alla sfida. Sono arrivato a invocare un piano Marshall per la PA, figuriamoci se non sono d’accordo sulla necessità di una rivoluzione del sistema, ma avverto anche la (spiacevole) sensazione che tutta questa enfasi sia un modo come l’altro per mettere le mani avanti e limitarsi a gestire l’esistente. E non è l’unica nota stonata che percepisco. Sì, perché l’obiezione che mi viene per prima in mente, quando sento parlare della settimana ultracorta, non riguarda i modelli organizzativi ma gli organici. Se ogni singola amministrazione soffre di una carenza di almeno un terzo degli addetti, che senso ha parlare di una riduzione delle giornate lavorative?

Già adesso per smaltire gli arretrati non bastano gli straordinari. E’ così vera questa riflessione che in qualche modo le stesse amministrazioni se ne rendono conto, anche se le soluzioni che propongono non vanno nella direzione giusta, come il bonus retributivo concesso ai dipendenti dell’Agenzia delle Entrate per il superlavoro connesso alle pratiche del PNRR. Ben venga ogni tipo di aumento salariale, ma trasformare i colleghi delle Entrate in cottimisti non è la strada migliore per risolvere il problema, quella passa per farli tornare da 29 mila a 43 mila, numero fissato nella loro pianta organica.

L’assoluta priorità della Pubblica Amministrazione, ora, è la ricostituzione degli organici. Primum vivere, deinde philosophari, come dicevano quelli colti. Dopodiché è ovvio che questi nuovi modelli organizzativi approfondiranno il divario già esistente tra lavoro pubblico e privato, rendendo il secondo sempre più attrattivo e competitivo rispetto al primo e non è buttando la palla in tribuna che si potrà invertire la tendenza alla disaffezione che tante volte abbiamo lamentato, ma ora che si apre la complicata fase del rinnovo contrattuale della PA sarebbe già un ottimo risultato se entrambe le parti, sindacato e amministrazioni, stessero focalizzate sulle immediate priorità e la prima di essere, ribadisco, riguarda gli organici.