RIA. Sentenza della Corte Costituzionale n. 4/2024. Pronte le diffide con i riferimenti alla normativa della Regione Siciliana

Possono presentare la diffida tutti i dipendenti e pensionati in servizio al 1° luglio 1990


Palermo 26 febbraio 2024 – Con la sentenza n.4/2024 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.51, comma 3, della legge n.388/2000 (Legge finanziaria nazionale del 2001) che escludeva la proroga al 31/12/1993 quale termine utile per la maturazione dell’anzianità di servizio ai fini dell’ottenimento della maggiorazione della RIA ai sensi dell’arti. 9, commi 4 e 5, del DPR n.44/90. Per comprendere cosa è successo occorre fare un passo indietro nel tempo e posizionarci nel 1990. Con il DPR n. 44/90 sono stati definiti gli importi e i requisiti per i cosiddetti scatti di anzianità (RIA). In sostanza per poter concorrere a tali importi era necessario soddisfare un requisito molto importante: alla data dell’1/1/1990 l’esperienza maturata doveva essere di almeno 5 anni. Il problema sorge quando con il DL n.384 del 1992 l’allora governo Amato ha prorogato i contenuti del Dpr n.44 del 1990 anche per il triennio che va dal 1991 al 1993. Secondo l’interpretazione dell’amministrazione, infatti, la proroga non riguarda gli scatti di anzianità per i quali il limite entro cui soddisfare il requisito dei 5 anni deve comunque essere soddisfatto entro il termine del 31/12/1989. Di diverso parere i dipendenti pubblici dello Stato, i quali ritennero che, con la proroga, la scadenza sia stata spostata di 3 anni. E da qui una serie di ricorsi che in molti casi hanno portato il giudice a esprimersi in loro favore, estendendo il diritto agli scatti a coloro che hanno raggiunto l’anzianità richiesta entro il 31/12/1992. Successivamente, per neutralizzare i ricorsi, lo Stato intervenne approvando una norma di interpretazione del citato D.L. n.384/92 con cui veniva indicata chiaramente la scadenza entro cui bisognava aver maturato la suddetta anzianità di servizio: come spiegato dalla legge n.388 del 2000 (finanziaria 2001), la proroga va intesa per tutte le disposizioni del Dpr 44/1990 eccetto che per gli scatti di anzianità. La sentenza della Corte Costituzionale n.4/24 ha ritenuto incostituzionale l’art. 51 comma 3 della L. 388/200 ripristinando, di fatto, il diritto dei dipendenti pubblici a percepire la RIA maturata fino 31 dicembre 1992. QUANTO STABILITO DALLA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE N. 4/2024 RELATIVAMENTE ALL’ATTRIBUZIONE DELLA RIA RIGUARDA ANCHE I DIPENDENTI DELL’AMMINISTRAZIONE REGIONALE MA NELLA DIFFIDA OCCORRE CITARE LE NORME DI RIFERIMENTO REGIONALI COSÌ COME PREDISPOSTO DAL COBAS/CODIR. ATTENZIONE, pertanto, a diffide errate già in circolazione che, citando impropriamente norme nazionali rischiano, creando solo confusione, di inculcare nei Giudici l’errato convincimento che questi arretrati non spettino ai dipendenti regionali. Il COBAS7CODIR, tramite i propri legali, ha anche quantificato attraverso l’esame di suddetta normativa, gli importi spettanti in base al livello o fascia funzionale di allora. Gli importi vanno dalle 380 mila lire annue per il primo livello al milione e 400 mila lire circa per l’ultimo livello (corrispondente al segretario generale). Chi volesse aderire alla diffida deve farne formale richiesta inviando una e-mail al seguente indirizzo [email protected]

Statali, lo scandalo degli aumenti negati. Dopo il Tfs un’altra sentenza ignorata

Di Jastrow (Opera propria) [Public domain], attraverso Wikimedia CommonsTratto da PAmagazine.it

Come amava ricordare Francesco Cossiga, secoli fa c’era un abate del convento di Cluny che il venerdì si faceva portare in tavola la cacciagione, la benediceva con le parole “Ego te baptizo in piscem” e mangiava tranquillo. È da tempo immemorabile, insomma, che il rispetto delle regole, nelle alte sfere è questione un po’ elastica. Lo si vede di fronte a un’altra delle sentenze della Corte Costituzionale, una delle ultime, che ancora una volta hanno dato ragione ai sindacati e ai dipendenti pubblici su un loro diritto, che questo governo, come i precedenti, non sembra avere alcuna intenzione di rispettare.

Andiamo per ordine: questa volta era in discussione un contenzioso che va avanti dai primi anni Novanta, in ballo c’erano alcuni aumenti legati all’anzianità, definiti da un accordo sindacale siglato nel 1989. Erano dei Ria (Retribuzione Individuale di Anzianità) cioè degli scatti che spettavano a chi al 1 gennaio del 1990 aveva già maturato cinque anni di lavoro nelle amministrazioni pubbliche. Si trattava, all’epoca, di 300 mila delle vecchie lire per la prima, seconda e terza qualifica dell’area funzionale; 400 mila lire per la quarta, quinta e sesta qualifica, e 500 mila lire per la settima, ottava e nona qualifica funzionale. L’accordo fu anche recepito in un Decreto del Presidente della Repubblica, sempre del 1990, e poi con un nuovo DPR del 1993, che prorogava l’intesa per un altro triennio.

Peccato però che l’interpretazione del nuovo testo, secondo il Ministero, limitava l’erogazione degli scatti ai soli dipendenti che avevano raggiunto il limite dei cinque anni di servizio prima del 1990, per chi aveva raggiunto la soglia dopo, niente aumenti. Ovviamente sindacati e lavoratori esclusi dai benefici non erano rimasti con le mani in mano ma avevano presentato una valanga di ricorsi al Tar e poi al Consiglio di Stato e i giudici amministrativi regolarmente hanno dato loro ragione, almeno fino al 2000, quando nella legge di bilancio venne introdotta una norma pensata proprio per battezzare la carne in pesce, cioè stabilire per legge quello che i Tar negavano per sentenza, ossia che gli scatti di anzianità valevano solo per i fortunati che avevano raggiunto la soglia a Capodanno del 1990.

Da quella data è partita una nuova battaglia legale, quella che si è appunto conclusa il 6 dicembre del 2023, quando la Corte Costituzionale ha deciso, con sentenza depositata l’11 gennaio 2024 di cassare le norme tagliola inserite dal II Governo Amato nella legge di bilancio 2001 (era ministro della Funzione Pubblica, Franco Bassanini). E la sentenza della Consulta è un capolavoro di chiarezza. Rigetta, infatti, la tesi dell’Avvocatura di Stato, secondo la quale la norma inserita in Finanziaria non è altro che un’interpretazione autentica del DPR al centro dei ricorsi. Niente affatto, risponde la Corte, spiegando che “la disposizione censurata è priva dei caratteri della legge di interpretazione autentica”, giacché “pur autoqualificantesi interpretativa, attribuisce alla disposizione interpretata un significato nuovo, non rientrante tra quelli già estraibili dal testo originario della disposizione medesima”, di conseguenza, “essa è innovativa con efficacia retroattiva”. Per tornare al vecchio abate di Cluny, anche se la chiami pesce, la carne resta carne.

Chiarito, quindi che la contromossa del governo non è interpretativa, ma è una modifica sostanziale delle norme precedenti, la Corte entra nel merito per sancire che questo intervento legislativo retroattivo è stato deciso chiaramente per condizionare i giudizi ancora in corso e tutto ciò la Costituzione non lo consente, “specialmente nel caso in cui sia coinvolta nel processo un’amministrazione pubblica. Infatti, tanto i principi costituzionali relativi ai rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale, quanto i principi concernenti l’effettività della tutela giurisdizionale e la parità delle parti in giudizio, impediscono al legislatore di risolvere, con legge, specifiche controversie e di determinare, per questa via, uno sbilanciamento tra le posizioni delle parti coinvolte nel giudizio”.

Non solo, i giudici della Corte hanno anche respinto un’altra interpretazione dell’Avvocatura di Stato, ossia che “che l’intervento legislativo fosse giustificato dalla finalità di eliminare una disparità di trattamento tra i dipendenti che avrebbero maturato le anzianità di servizio prima del 31 dicembre 1990 (…) e coloro che avrebbero potuto maturare tali anzianità di servizio anche dopo tale data”, precisando che “semmai, è stata la disposizione censurata ad aver causato una ingiustificata differenziazione retributiva a danno di quei dipendenti pubblici che, diversamente da quanto avvenuto in relazione al triennio 1988-1990, non hanno potuto valorizzare l’anzianità di servizio maturata nel successivo triennio 1991-1993”.

Difficile trovare una bocciatura più netta e a questo punto l’unica conseguenza possibile di questa sentenza della Corte Costituzionale dovrebbe essere il rimborso degli arretrati dovuti, con gli interessi del caso, a tutti gli aventi diritto a cui sono stati finora negati. La logica, oltre al diritto, lo imporrebbe, ma la realtà sembra essere diversa. Il governo finora non si è espresso, ma informalmente ci è già stato detto che i soldi andranno semmai solo a quanti hanno fatto ricorso (circa 700 colleghi), per tutti gli altri ormai i tempi sono scaduti e non hanno più alcun diritto agli arretrati. E’ questo il motivo per cui, come Confsal-Unsa, abbiamo inviato una diffida alla Presidenza del Consiglio, al Ministro dell’Economia e al Ministro della Pubblica Amministrazione, perché si vengano versati immediatamente gli arretrati maturati, con gli interessi, a tutti coloro che non li hanno potuti avere, siano essi ancora in servizio o già pensionati, chiedendo altresì che le stesse pensioni, quelle in essere e quelle future, siano ricalcolate tenendo conto delle nuove cifre e dei relativi oneri previdenziali. E’ evidente, infatti, che l’abrogazione di una norma incostituzionale rappresenta l’eliminazione di un vulnus al diritto del cittadino, la riparazione del danno subito, quindi, non può valere solo per chi si sia opposto attivamente a quell’ingiustizia.

Ripeto, diritto e logica vogliono così. La Corte Costituzionale, del resto, serve a questo: impedire che qualsiasi legge possa andare contro la Costituzione, la stessa Carta sulla quale giurano i membri del Governo quando assumono la carica. Il problema, però, è che, almeno quando si tratta dei diritti dei lavoratori pubblici, le decisioni della Consulta finiscono per avere la stessa forza giuridica delle grida manzoniane, basti pensare alle due sentenze (non una, ma ben due) che hanno ribadito il diritto dei dipendenti pubblici in quiescenza di vedersi pagato il Tfs con gli stessi tempi con i quali viene versato il Tfr ai loro colleghi del settore privato. Ancora oggi nessuna delle due sentenze è stata rispettata. E questo è un segnale davvero grave, non per i dipendenti pubblici ma per tutti i cittadini italiani.

Riassumo un attimo per far capire bene l’eccezionalità della situazione: un governo (peraltro uno di un colore diverso da quello attuale) è intervenuto con una legge per condizionare le sentenze della magistratura; quindi, il Potere esecutivo ha varato un provvedimento, approvato dalle Camere, cioè dal Potere legislativo, e insieme sono intervenuti per limitare l’azione del Potere giudiziario, con tanti saluti al principio della separazione dei poteri, che da Montesquieu in poi dovrebbe essere a fondamento di ogni stato di diritto e di ogni democrazia liberale. Tutti i governi successivi, compreso quello attuale, nonché tutti i parlamenti che si sono succeduti, hanno mantenuto in vigore questa norma, che finalmente il garante della Costituzione, cioè la Consulta, ha ora abrogato e che cosa succede? Nulla. A chi ha subito il danno non va alcun risarcimento. Ed è la terza volta che succede. La Corte Costituzionale è il giudice supremo, se le sue decisioni possono essere bellamente ignorate allora abbiamo tutti un problema. Grave.