Statali, la fine del mito del posto fisso. Pa sempre più precaria e senza un vero piano di assunzioni

Tratto da PAmagazine

Secondo l’Enciclopedia Treccani il “mito”, termine che viene dal greco mythos (μῦϑος) e che significa “parola” o “racconto”, è una narrazione fantastica, con valore religioso o simbolico, “che non prevede dimostrazione”, e in questo senso è opposto al logos (la dimostrazione ben fondata della verità), la sua caratteristica essenziale, inoltre, è che esso si sia diffuso “oralmente prima di essere scritto, e che si perpetui nella tradizione di un popolo”. Ciò premesso, non c’è alcun dubbio che quello del posto fisso nella pubblica amministrazione, garanzia a vita di sicurezza economica e di status sociale, sia ormai un mito, radicato quanto si vuole, capace per esempio di ispirare uno dei film più divertenti di Checco Zalone, ma appunto opposto al logos, alla dimostrazione fattuale di una verità che racconta, invece, di una costante tendenza verso la precarizzazione del lavoro pubblico nel suo complesso.

Non fosse così l’Unione Europea non avrebbe messo il governo italiano nel mirino già nel 2019, avviando una procedura d’infrazione per abuso di contratti e di rapporti di lavoro a termine nella pubblica amministrazione. Procedura che lungi dall’essere archiviata, solo due mesi fa è passata al secondo stadio, con l’invio a Roma di un parere motivato in cui si evidenzia che “la normativa italiana non previene né sanziona in misura sufficiente l’utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato per diverse categorie di lavoratori del settore pubblico”. Del resto, già nel 2015, l’allora premier Matteo Renzi varò la cosiddetta “Buona scuola” proprio per stabilizzare i precari ed evitare una pesante multa minacciata da Bruxelles. Il fatto è che l’Italia in tutti questi anni non si è mai messa in regola con i principi fissati dalla Direttiva 70 del 1999, emanata dal Consiglio Ue, che proibisce discriminazioni a danno dei lavoratori a tempo determinato nel settore pubblico.

Si dirà che l’Italia è in buona compagnia, visto che un analogo cartellino giallo è stato alzato dalla Ue anche nei confronti di altri 9 paesi tra cui Belgio, Germania, Grecia e Lettonia, ma resta il dato preoccupante che lo scivolamento verso la precarizzazione nella PA non accenna a diminuire, anzi accelera. Lo dicono i numeri: dal dicembre 2020, data dell’ultimo censimento dell’Istat sulle amministrazioni pubbliche, come raccontato da PA Magazine, i dipendenti pubblici sono aumentati complessivamente del 2,5%, ma a questa percentuale si arriva per l’incremento dei contratti a tempo determinato (+58,9%, +145 mila unità circa), mentre sono parallelamente calati i dipendenti a tempo indeterminato (-73 mila unità, il 2,8% del totale). In altri termini oggi risultano in servizio 2.974.360 dipendenti a tempo indeterminato, mentre quelli a tempo determinato sono 421.929 (l’11,7%), a cui si aggiungono 205.420 non dipendenti (il 5,7%), di conseguenza il personale precario rappresenta ormai il 15,7% di quello in servizio presso le amministrazioni dello Stato e presso le Province e Città metropolitane.

Con queste premesse faceva quasi tenerezza sentire, nella conferenza stampa di presentazione del recente Decreto PA bis, le lodi del ministro della Pubblica Amministrazione Paolo Zangrillo sul provvedimento in questione, che oltre a rafforzare i ministeri, segnerebbe un punto cruciale nel percorso di modernizzazione che porterà a colmare l’attuale gap, avviando un “processo di reclutamento trasversale”, che porterà all’inserimento di ben “170 mila nuove persone nel 2023”.

Ora, senza voler mettere in discussione la buona fede del ministro, non si può non rilevare che negli anni passati affermazioni analoghe siano state fatte praticamente da tutti i suoi predecessori di destra, di sinistra, di centro o tecnici che fossero. Dalla legge n. 296/2006 (finanziaria 2007) quasi non si contano i provvedimenti varati ogni anno per contenere il lavoro precario nella pubblica amministrazione, scoraggiare il ricorso abusivo al lavoro flessibile, fissare limiti temporali per le collaborazioni coordinate e continuative ed escluderne il ricorso per le esigenze ordinarie, connesse al funzionamento delle proprie strutture amministrative. Il risultato, come si è visto, è che il precariato invece di calare è cresciuto, mentre, a leggere i Piao (acronimo che sta per Piano integrato di attività e organizzazione) presentati dalla varie amministrazioni, mancano almeno un altro milione di assunzioni per completare gli organici.

Al ministero della Giustizia, per esempio, la dotazione organica dovrebbe essere di 43mila persone, ma in servizio ce ne sono 34 mila, a tenere banco, però, è soprattutto il tema scottante degli 11 mila tecnici assunti a tempo per costituire gli uffici del processo, le nuove strutture pensate per alleggerire e velocizzare il lavoro dei magistrati. Dal successo di questi uffici dipende il raggiungimento di uno degli obiettivi qualificanti del PNRR: ridurre del 40% entro il 2026 la durata dei processi nei tre gradi di giudizio. Ebbene visti gli stipendi poco competitivi e la precarietà dell’impiego oltre duemila dei tecnici assunti si sono già dimessi e la tendenza all’esodo non sembra essersi arrestata. Un altro esempio negativo viene dal ministero del Lavoro (che tra l’altro ha il compito di gestire le crisi aziendali e combattere quindi disoccupazione e precariato anche nel privato), qui le carenze in organico hanno toccato il 40%. Non parliamo poi della Scuola, dove un docente su 4 è precario, visto che gli insegnanti con contratto a termine sono 225mila (sui circa 900mila complessivi), sette anni fa, ai tempi della Buona scuola, i precari erano 100mila. Quanto alla Sanità, le carenze sono tali che l’amministrazione regionale di centrodestra della Calabria ha firmato un accordo con Cuba per far arrivare dall’Avana i medici mancanti e non è l’unica regione che guarda oltre confine, hanno aperto al reclutamento internazionale, tra gli altri, anche la Sardegna e l’Emilia-Romagna.

In che cosa, quindi, dovrebbe differire rispetto al passato il decreto PA bis? Un certo numero di assunzioni effettivamente c’è. Tramite concorso verranno assunti 40 funzionari al ministero dell’Istruzione, 100 dipendenti non dirigenziali al ministero della Cultura e 70 di pari qualifica al ministero della Giustizia e sarà infine allargato di altre 87 unità l’organico dell’Autorità per la Protezione dei dati personali. Tutte assunzioni a tempo indeterminato a cui si aggiunge la possibilità di stabilizzare (ma senza costi aggiuntivi) i lavoratori socialmente utili impegnati nelle varie amministrazioni. E poi ci saranno 30 funzionari a termine (un anno) per aiutare le prefetture delle zone alluvionate, 33 contratti temporanei all’Agenzia del Farmaco e un certo numero di esperti per gli uffici di diretta collaborazione dei ministri Gennaro San Giuliano e Daniela Santanchè. Ci sono poi anche nuove regole che dovrebbero semplificare le procedure concorsuali, la cui efficacia, però, andrà verificata alla prova dei fatti e proprio a queste nuove regole faceva riferimento Zangrillo quando parlava di riduzione del gap. Basterà per invertire la rotta?

I precedenti non fanno ben sperare, ma non è nemmeno questo il punto che consiglia cautela nel giudizio, il fatto è che come in passato di fondi aggiuntivi non ce ne sono, semmai si tolgono risorse ad altre poste di bilancio. Questo significa, insomma, che come non si vuole investire nel rinnovo del contratto, non si vuole investire nemmeno sugli organici, con il risultato che l’unica continuità che da decenni ogni governo rispetta, qualsiasi sia il suo colore, è la disattenzione verso la pubblica amministrazione. E questo è logos, cioè verità, non mito, ossia narrazione.