Deliberazione n. 411 del 12 novembre 2019. Reintegrazione delle somme occorrenti al ripristino degli stanziamenti previsti sui fondi destinati al trattamento accessorio per il personale del comparto non dirigenziale e per la dirigenza

Variazione compensativa tra capitoli appartenenti allo stesso macroaggregato, finalizzata all’iscrizione delle somme occorrenti al ripristino degli stanziamenti previsti sui fondi destinati al trattamento accessorio per il personale del comparto non dirigenziale e per la dirigenza, nonché alla corresponsione delle indennità di vacanza contrattuale maturate sia per la dirigenza che per il personale del comparto e dei relativi arretrati.

Banche ore: i chiarimenti dell’Aran

tratto da self-entilocali.it
Banche ore: i chiarimenti dell’Aran
Pubblicato il 14 novembre 2019

Il limite complessivo annuo individuale, stabilito in sede di contrattazione decentrata integrativa, si riferisce alle sole ore di lavoro straordinario e supplementare, previamente autorizzate, che il dipendente può richiedere che vengano destinate nell’arco dell’anno alla banca ore, sul proprio conto individuale, e non alla giacenza delle ore sul conto medesimo.

Questo il chiarimento fornito dall’Aran con l’orientamento applicativo CFL31 del 5 novembre 2019.
L’articolo 27 del CCNL Funzioni Centrali (analogamente a quanto previsto nell’art. 38 bis del CCNL Comparto Regioni ed Autonomie locali del 14.09.2000 per le ore di lavoro straordinario), dispone che le ore di lavoro straordinario e di lavoro supplementare, debitamente autorizzate, possono confluire su richiesta del dipendente nella banca ore entro un limite complessivo annuo individuale, stabilito in sede di contrattazione decentrata integrativa.
Come chiarito dall’Aran, tale limite è da intendersi riferito alle ore che ciascun dipendente può destinare nell’anno alla banca delle ore e non alla giacenza di tali ore sul proprio conto individuale.
Pertanto, una volta raggiunto il numero massimo di ore destinabili annualmente alla banca ore non sono consentiti, nel medesimo anno, ulteriori accantonamenti.

Il mobbing può essere provato anche con le presunzioni. In caso di condanna il dirigente pubblico risponde dei danni

tratto da Il Sole 24 Ore – 18 Novembre 2019

Il mobbing può essere provato anche con le presunzioni 
di Paola Maria Zerman – Il Sole 24 Ore – 18 Novembre 2019
In una causa per mobbing o straining, la prova dell’ elemento intenzionale e vessatorio del datore di lavoro può essere fornita dal lavoratore anche in base alle caratteristiche oggettive dei comportamenti tenuti, e cioè su presunzioni gravi, precise e concordanti, dai quali è possibile risalire da fatti noti ad altri ignorati (articolo 2727 del Codice civile). Lo ha deciso la Corte di cassazione (sezione lavoro, sentenza 23918 del 25 settembre 2019), e similmente, in un contesto di lavoro non contrattualizzato, il Consiglio di Stato (sezione IV, sentenza 4471 del 1° luglio 2019), che ha affermato che la prova dell’ animus nocendi può essere soddisfatta dal dipendente anche attraverso presunzioni tratte da elementi oggettivamente riscontrabili.
Apertura della giurisprudenza del tutto in linea con l’ accertamento del dolo in materia penale (posto che, in mancanza di confessione da parte dell’ interessato o testimonianza è assai arduo provare l’ elemento della volontà criminale, per definizione interno alla persona), ma che con fatica ha trovato approdo nella giurisprudenza del lavoro, impegnata a dare una configurazione giuridica a un fenomeno non regolato dalla legge, e i cui parametri si rapportano a conflitti e sofferenze all’ interno del contesto lavorativo, studiate ed elaborate dalla scienza medica e quindi in un ambito extra-giuridico.
Il rischio di richieste risarcitorie pretestuose, ha messo la giurisprudenza sulla difensiva, dando al lavoratore l’ onere non solo della prova dell’ elemento “oggettivo” del mobbing, e cioè la pluralità di azioni dirette alla sua umiliazioni personale e professionale – sia illecite, quale il demansionamento, irrogazione di sanzioni disciplinari infondate o controlli ingiustificati e ossessivi, ma anche lecite, attuate attraverso omissioni, quali la mancanza di valorizzazione del dipendente, o lo svuotamento delle attività assegnate, o l’ eccessivo carico di lavoro – ma anche dell’ elemento soggettivo persecutorio del datore di lavoro.
Elementi entrambi richiesti dalla consolidata giurisprudenza, sebbene riconducibili alla violazione, di natura contrattuale e non extracontrattuale (con il conseguente termine decennale di prescrizione – dell’ obbligo di tutela dell’ integrità fisica e della personalità morale del lavoratore gravante sul datore di lavoro in base all’ articolo 2087 del Codice civile). Ricorda infatti il Consiglio di Stato, nella sentenza citata, che la ricostruzione giurisprudenziale del mobbing richiede alla vittima di provare il dolo del mobber, pur facendosi valere la responsabilità contrattuale, «essendo un elemento fondante la stessa illiceità in termini di mobbing della condotta datoriale». Questa circostanza, però, si può rivelare una probatio diabolica, con il conseguente rigetto della domanda risarcitoria, e, forse, una giustizia negata.
Per questo, appare più che giustificata la legittimazione giurisprudenziale al ricorso a elementi oggettivi di natura presuntiva, dai quali desumere l’ intento persecutorio, la cui valutazione è affidata alla prudente valutazione del giudice del merito (si veda da ultimo la sentenza della Corte d’ appello di Roma del 24 settembre 2019, che ha confermato gli elementi sintomatici del mobbing, già riconosciuti dal Tribunale). Sotto il profilo della supervisione del giudice di legittimità, non è stato ritenuto sufficiente, ai fini del riconoscimento dell’ intento persecutorio nei confronti del lavoratore, limitarsi a «dedurre che mentre ai colleghi fu consentito di proseguire con la modalità di tele-lavoro notturno, solo a lei (a una dipendente, ndr.) fu impedito» (Cassazione, sent. 23918 del 2019).
tratto da Il Sole 24 Ore – 18 Novembre 2019

tratto da Il Sole 24 Ore – 18 Novembre 2019
Il dirigente pubblico risponde dei danni 
Il Sole 24 Ore – 18 Novembre 2019
In caso di condanna dell’ amministrazione pubblica per un fatto di mobbing messo in atto da un suo dirigente, quest’ ultimo è tenuto a risponderne davanti alla Corte dei conti per danno erariale indiretto, avendo violato i fondamentali obblighi di servizio cui è tenuto un impiegato dello Stato. Lo ha ribadito la sezione giurisdizionale del Lazio (sentenza del 25 febbraio 2019, relatore Di Stazio), che, prendendo avvio dalla sentenza di condanna per risarcimento dei danni causati da una dirigente pubblica per mobbing nei confronti di una subordinata, ha accolto la richiesta di rivalsa da parte della Procura nei confronti del responsabile, in base all’ articolo 1 della legge 20/1994, ravvisando gli estremi dell’ illecito e del dolo nella sua condotta.
Il collegio ha ritenuto illecita la condotta ai fini della responsabilità amministrativa-contabile, in base alla valutazione del giudice del lavoro. Dall’ esame dell’ istruttoria civile, il giudice contabile ha rilevato una serie di fatti che integravano la fattispecie di mobbing per essere stata l’ interessata progressivamente emarginata e svuotata dal contenuto delle sue mansioni.
Il mobbing si era concretizzato nella privazione di incarichi e di compiti lavorativi correlati all’ inquadramento e nella dequalificazione professionale della dipendente, costretta a una sostanziale inattività, senza assegnazione di compiti specifici o con assegnazioni inferiori. In stretto rapporto temporale e causale, veniva accertato uno stato di malattia e un danno biologico a carico della dipendente mobbizzata, quali depressione e attacchi di panico, con conseguente riconoscimento del diritto al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale. La condotta del dirigente, per la Corte, è caratterizzata da dolo, trattandosi di un atteggiamento persecutorio nei confronti della sottoposta.

Dopo il blitz anti furbetti del cartellino chiude il bar dell’assessorato alla Salute

Dopo il blitz anti-assenteismo all’assessorato alla Salute di Palermo a piazza Ziino chiude il bar che si trovava al piano terra. A causa della moria di clienti il gestore è stato costretto a chiudere bottega.

Come riporta la Repubblica, i 150 dipendenti regionali dell’assessorato alla Salute non potranno più godere della pausa caffè, almeno fino a quando la Regione non avrà trovato un altro soggetto a cui affidare la gestione dei locali.

Il blitz anti fannulloni di un anno fa ha decimato i clienti fissi del bar.

Stato di agitazione di tutto il personale della Regione Siciliana – Richiesta convocazioni urgenti

Palermo 19 novembre 2019 – Le scriventi Segreterie Regionali, Fp Cgil, Cisl Fp, Uil Fpl, Cobas/Codir, Di.r.si, Sa.di.r.s e Ugl Fna precisano che, a seguito di quanto stabilito nelle assemblee del 6 novembre scorso, in cui sono intervenuti migliaia di lavoratori che hanno aderito allo stato di agitazione indetto dalle OO.SS. e ancora in corso, a stragrande maggioranza, si è deliberata l’adesione a uno sciopero generale laddove non vengano posti in essere tutti i provvedimenti contrattuali richiesti che pongano immediatamente fine a ulteriori gravi e ingiustificati ritardi.

Si può obbligare il dipendente a fare le ferie?

L’azienda non può obbligare il dipendente a fare le ferie quando il lavoratore non le vuole fare. Ma, alla fine del rapporto di lavoro, non è tenuta nemmeno a pagare le ferie che il lavoratore non ha voluto fare nonostante le sollecitazioni dell’azienda.
La giurisprudenza si arricchisce di nuove sentenze sul riposo che ogni dipendente deve fare durante l’anno.

La norma fa riferimento agli «interessi dell’azienda e del prestatore di lavoro». Significa che non si può obbligare il dipendente a fare le ferie (o tutte le ferie) solo quando l’azienda lo decide. Altro discorso è che, per esigenze del datore di lavoro, ci sia un periodo in cui il dipendente non può recarsi in ufficio o in fabbrica (pensiamo, ad esempio, alle chiusure aziendali di agosto o – per chi le adopera – durante il periodo natalizio). In questo caso, il resto del monte ore può deciderlo il lavoratore.

Nel caso in cui venga obbligato a smaltire i giorni di riposo in modo coatto, l’azienda può essere condannata a reintegrare il monte ore di ferie maturate.

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Guardando a casa nostra, il vigente CCRL (2016-2018) del comparto non dirigenziale, all’art. 37 prevede il rinvio delle ferie che vanno fruite entro il 30 settembre dell’anno successivo, tuttavia anche quest’anno, come ogni fine anno, assistiamo ad un proliferare di circolari che, citando il CCRL del comparto non dirigenziale, ricordano che le ferie residue vanno fruite entro il 31 dicembre, limitando il numero di giorni da potere fruire successivamente, richiamando non meglio precisate “esigenze di servizio”.

Alcuni dirigenti, infatti, si soffermano solo alla lettura del comma 14 del sopra citato art. 37 ritenendo che le “esigenze di servizio” riguardino solo il personale del comparto, dimenticando che, in assenza di “indifferibili esigenze di servizio” il primo a dovere fruire delle ferie entro l’anno di riferimento è proprio il dirigente (cfr. art. 25 comma 10 CCRL dirigenza).

Ma le ferie, oltre che per “indifferibili esigenze di servizio” possono essere rinviate anche “in caso di motivate esigenze di carattere personale”. Il comma 15 dell’art. 37 consente, infatti, la fruizione delle ferie entro il mese di settembre dell’anno successivo anche “in caso di motivate esigenze di carattere personale”, esattamente come previsto dal comma 10 dell’art. 25 del CCRL del personale con qualifica dirigenziale per il quale il rinvio delle ferie non è mai posto in discussione. Tra l’altro l’Aran (nazionale) ha opportunamente chiarito che qualunque esigenza, purché motivata, del dipendente può dar luogo al rinvio all’anno successivo (cfr. RAL495_Orientamenti Applicativi).

Falso ideologico e truffa per il dipendente in congedo straordinario retribuito che non presta assistenza

segnaliamo da quotidianoentilocali.ilsole24ore.com
Falso ideologico e truffa per il dipendente in congedo straordinario retribuito che non presta assistenza
di Andrea Alberto Moramarco
Commette i reati di falso ideologico in atto pubblico e truffa aggravata ai danni dello Stato il dipendente pubblico che chiede il cambio di residenza presso l’abitazione del genitore bisognoso di assistenza, al solo fine di ottenere il congedo straordinario biennale retribuito, in assenza di una effettiva coabitazione e senza prestargli la dovuta assistenza.
Questo è quanto successo nel caso oggetto della sentenza della Cassazione n. 43902, depositata ieri.
I fatti
Protagonista della vicenda è un dipendente pubblico il quale, per poter assistere il padre gravemente malato, chiedeva di poter usufruire del congedo straordinario biennale retribuito, di cui al Dlgs n. 119/2011, previo cambio di residenza anagrafica presso l’abitazione del genitore. Dopo la concessione del beneficio, però, i sopralluoghi effettuati dai Carabinieri e le successive indagini dimostravano che l’uomo dimorava abitualmente in un’altra casa, pur se contigua all’abitazione del padre, e di fatto non gli prestava assistenza specifica ma aiutava sporadicamente una badante che si occupava dei bisogni del genitore.

Pensioni. Non cresce l’aspettativa di vita, l’età pensionabile rimane a 67 anni

I requisiti per l’accesso alla pensione di vecchiaia non cambieranno e resteranno pari a 67 anni anche nel 2021. La conferma arriva dal decreto del ministero dell’Economia appena pubblicato in Gazzetta Ufficiale sulla base dell’indicazione dell’Istat di una crescita di appena 0,021 decimi di anno dell’aspettativa di vita a 65 anni.

I dipendenti “invisibili” del Centro per l’Impiego di Messina: la politica ci ascolti

La vertenza dei lavoratori dei Centri per l’Impiego è regionale, da Messina parte un appello chiaro e forte di fronte alle nuove assunzioni.

Si definiscono dipendenti anonimi. O forse invisibili. Perché dopo anni di lavoro, rinunce, sacrifici, false promesse e speranze, oggi si sentono l’ultima ruota di un carro che però hanno fatto girare negli ultimi trent’anni. Sono i lavoratori del Centro per l’Impiego di Messina.