Statali, attesa per la sentenza sul Tfs. L’arma (spuntata) della tenuta dei conti pubblici per ritardare il pagamento

Di Jastrow (Opera propria) [Public domain], attraverso Wikimedia CommonsTratto da PAmagazine

Sono passati tre giorni da quando la Corte Costituzionale ha tenuto l’udienza pubblica. Ma la decisione dei giudici supremi non è ancora stata resa nota. Ad attenderla ci sono 3 milioni e passa di dipendenti pubblici. La questione è nota. La Consulta deve decidere se è lecito o meno che gli statali ricevano la loro liquidazione fino a 5 anni dopo l’uscita del lavoro, con un sistema di rateizzazione. La discussione pubblica che si è tenuta martedì scorso davanti ai giudici è stata particolarmente interessante. Soprattutto per le tesi sostenute dagli avvocati dell’Inps e da quelli dello Stato. E che rischiano di lasciare con l’amaro in bocca medici, poliziotti, insegnanti e tutti gli altri “volti della Repubblica”, come li aveva definiti il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

La pistola messa sul tavolo è quella della tenuta dei conti pubblici e del bilancio dell’Inps. Nella costituzione in giudizio dell’Istituto di previdenza sociale, è stata inserita una tabella in grado di far tremare i polsi a qualsiasi governo, a qualsiasi ministro del Tesoro e a chiunque sarà il prossimo presidente dell’Inps. Pagare subito il Tfs ai dipendenti pubblici, dice quella tabella, avrebbe un costo di 13,9 miliardi di euro soltanto per il 2023. Se lo Stato fosse chiamato insomma, a versare subito i soldi della liquidazione, è possibile che il governo debba dire addio a molte delle misure fiscali che ha in mente. Sia gli avvocati dell’Inps che quelli dello Stato, hanno sostenuto che la stessa Corte Costituzionale nelle sentenze passate, ha stabilito che alcune decisioni possono essere contemperate per tenere conto degli equilibri del bilancio dello Stato.

Possibile. Ma la domanda è: è giusto mettere a carico di una sola categoria di dipendenti, la sostenibilità del bilancio pubblico e l’equilibrio patrimoniale dell’Inps? Il contratto dei dipendenti pubblici è rimasto bloccato per 10 anni per “aiutare” i conti dello Stato. E adesso è di nuovo scaduto da due anni e nemmeno un euro per rinnovarlo è stato stanziato. L’indennità “una tantum” decisa con la manovra di Bilancio in molte amministrazioni non è stata ancora erogata. Il blocco del turn over, deciso sempre all’inizio del decennio scorso per “salvare” i conti pubblici, ha messo in ginocchio la macchina pubblica e rischia di far fallire il Pnrr. Nel frattempo, il primo maggio scorso, il governo ha deciso un taglio dei contributi all’Inps per tutti i lavoratori, impegnando 4 miliardi di euro per quest’anno e 10 miliardi il prossimo se deciderà di confermare la misura. L’Inps riceverà però, sempre meno contributi e il costo delle pensioni graverà sempre di più sulle casse pubbliche.

Dunque torna la domanda: è giusto che queste misure siano alla fine finanziate ponendole a carico soprattutto dei dipendenti pubblici? La questione del Tfs rientra a pieno titolo in questo contesto. E’ soltanto un tassello di una politica che ha indebolito e impoverito il pubblico impiego. Oggi un lavoratore dello Stato che lasciato il lavoro vorrebbe aiutare magari un figlio a comprare casa o a farlo studiare senza vederlo accampato in una tenda sotto un’Università, ha un solo modo per ottenere soldi che sono i suoi: farseli prestare in banca dando a garanzia la propria liquidazione e pagando un tasso superiore al 4 per cento. Sia l’Inps che lo Stato, nell’udienza pubblica, hanno ricordato questa misura ponendola come possibile giustificazione alla protrazione del pagamento differito. Meglio persino sorvolare su affermazioni del genere. Così come secondo gli avvocati di Inps e Stato, per un dipendente ricevere la liquidazione anche dopo uno o due anni non sarebbe poi un gran sacrificio, visto che l’importo comunque viene versato per intero, dimenticando però che oggi c’è un tassa chiamata inflazione. E dimenticando anche che i volti della Repubblica hanno occhi e orecchie per giudicare come lo Stato per il quale lavorano li considera.