Tfs, il clamoroso dietrofront dell’Inps: si può pagare subito. Attesa per la Consulta

Tratto da PAmagazine

“In Italia nulla è stabile, fuorché il provvisorio”, scriveva Giuseppe Prezzolini nel suo impietoso Codice della vita italiana. Era il 1921, ma dopo un secolo l’aforisma è ancora valido dimostrando che anche i difetti nazionali hanno una loro, granitica, stabilità. Nel 2011, per esempio, nella spasmodica ricerca di soluzioni che potessero tranquillizzare i mercati e raffreddare lo spread, che stava portando il costo del debito pubblico oltre i limiti della sostenibilità, il governo Monti buttò nel calderone delle misure emergenziali (oltre all’Imu e alla riforma Fornero delle pensioni) anche una stretta sui dipendenti pubblici che mise insieme il blocco degli aumenti salariali e delle nuove assunzioni con lo slittamento delle buonuscite, che da allora vengono pagate, per lo più a rate, solo due anni dopo l’avvenuto collocamento a riposo. Intervallo di tempo, però, che decorre solo se è già stata raggiunta l’età per la pensione di vecchiaia (attualmente 67 anni), perché se l’uscita dai ranghi pubblici avviene prima del fatidico compleanno, come nel caso dei prepensionamenti, per vedere qualche soldo del Trattamento di fine servizio (Tfs), il lavoratore deve comunque attendere i 67 anni e poi cominciare il conto alla rovescia, il che fa sì che, a seconda dell’età del pensionato pubblico, l’attesa può variare dai 2 ai 7 anni.

Si dirà che erano tempi difficili e il rischio di default dei conti pubblici appariva assai concreto, così da non poter stare troppo a sottilizzare sulle scelte compiute. I più le hanno subite con rassegnazione, in attesa che la buriana passasse e si potesse tornare alla normalità. E in effetti superata la fase più calda, qualche attenuazione nel rigore c’è anche stata. Nel 2013 il governo di Enrico Letta ha tolto l’Imu sulla prima casa e anche la legge Fornero è stata qui e là corretta (dalle misure a favore degli esodati fino alla quota 100 o alla Opzione donna). Pure il bonus degli 80 euro di Renzi o il reddito di cittadinanza, in qualche modo, sono serviti ad ammorbidire quella stretta emergenziale di fine 2011, che però, a giudizio dell’attuale e di tutti gli altri governi che lo hanno preceduto, non può essere attenuata se in ballo ci sono i soldi di lavoratori e pensionati pubblici. Per questa categoria l’emergenza non è mai passata.

Allentare i cordoni significa mettere a rischio i conti pubblici. Altre linee di difesa per giustificare la tetragona determinazione nel congelamento del Tfs, del resto, non ci sono. Che un’attesa di sette anni per incassare il Tfs sia una discriminazione, un vulnus nei diritti di un lavoratore pubblico (visto che un dipendente privato andato in pensione passa immediatamente all’incasso del suo Tfr), sembra più un’ovvietà indiscutibile che questione sui cui dibattere, tant’è che la linea di difesa dell’avvocatura di Stato in questi anni non si è mai veramente attestata su elementi di diritto, ma ancora oggi, come ieri, si basa solo sulla sostenibilità della spesa per le casse pubbliche.

Una linea messa già in discussione in larga parte dalla Corte Costituzionale, che nel 2019, chiamata a pronunciarsi sul caso di un prepensionato, specificò che il differimento del Tfs è accettabile solo in caso di uscita anticipata dal lavoro. L’avvertimento implicito lanciato dalla Consulta era chiaro: se il dubbio di incostituzionalità venisse sollevato da chi è andato in pensione a 67 anni, la sentenza potrebbe essere diversa. Ed è esattamente di questo che si dibatte in questi giorni, ora che la Corte Costituzionale è chiamata ad esaminare i ricorsi riguardanti alcuni pensionati di vecchiaia. E infatti per evitare un pronunciamento avverso gli avvocati dello Stato e dell’Inps non hanno potuto fare altro, durante l’udienza dello scorso 9 maggio, che alzare ancora di più l’allarme sui conti pubblici, avvertendo i giudici che se venisse annullato il differimento della buona uscita per i pensionati pubblici l’istituto di previdenza dovrebbe spendere altri 14 miliardi di euro già nell’anno in corso.

Un allarme, però, che è stato clamorosamente smentito nemmeno una settimana dopo dal presidente uscente dell’Inps, Pasquale Tridico, che in un incontro di commiato con la stampa ha definito quei costi “alla portata”, visti anche i buoni risultati d’esercizio dell’istituto. Non solo, Tridico ha aggiunto che si tratta di spendere qualcosa “che è già entrato nelle nostre casse”, sarebbe in sostanza un’anticipazione di spesa. E qui il punto si fa delicato, perché il presidente rimosso può anche aver voluto creare con le sue parole un problema al successore, ma al netto di qualsiasi dietrologia resta l’essenza del discorso: non anticipare quella spesa, anzi posticiparla, significa trattenere in cassa una cifra che è stata guadagnata dal lavoratore come corrispettivo di un lavoro già corrisposto, perché il Tfs, come il Tfr per i lavoratori privati, è salario differito. Con l’aggravante che essersi tenuti quei soldi per anni (come già detto in alcuni casi persino per sette anni), non ha fatto fare finora una gran figura allo Stato (per usare un eufemismo), ma almeno l’inflazione nell’ultimo decennio era praticamente ferma e quindi la buonuscita arrivava tardi, ma intatta. Adesso che l’inflazione galoppa tra il 7 e l’8 %, non erogare quei fondi significa tagliarli ogni anno di quella percentuale, in altre parole pagare sempre meno un lavoro di cui si è già goduto. La Corte dirà se tutto ciò è incostituzionale, ma il buonsenso ci ha già fatto capire che è ingiusto.