Nasce il comitato per il no nel referendum costituzionale sulla legge renzi-boschi

Il Comitato per il No nel Referendum Costituzionale sulla Legge Renzi Boschi si riunirà a Roma il giorno 11 gennaio 2016 nella sala della Regina della Camera dei Deputati per discutere delle iniziative di diffusione e per la raccolta delle firme utili alla proposizione del referendum.

Parteciperanno all’evento Alfiero Grandi e Domenico Gallo di Democrazia Costituzionale che apriranno i lavori. A seguire interverranno illustri costituzionalisti quali Felice Besostri, Lorenza Carlassarre, Massimo Villone, Gianni Ferrara, Gaetano Azzariti, Gustavo Zagrebelsky e Stefano Rodotà.

Deriva autoritaria

Per fermare la deriva autoritaria verso la quale sta scivolando l’attuale esecutivo, l’unica arma a disposizione, la migliore di tutte, è indubbiamente la difesa della Costituzione nella sua integrale applicazione. Troppe sono le disuguaglianze di ordine economico e sociale che di fatto determinano situazioni confliggenti con l’articolo 3 della Costituzione. Creare consenso e diffondere su scala nazionale l’iniziativa di raccolta firme per abrogare le leggi “renziane” diventa assolutamente obbligatorio.

Facciamo il punto della situazione

Cosa prevede la riforma che verrà sottoposta a referendum

La riforma promossa dal governo Renzi – il cosiddetto “ddl Boschi”, dal cognome del ministro Maria Elena Boschi – prevede innanzitutto la fine del cosiddetto “bicameralismo perfetto”, espressione con cui si definisce un sistema parlamentare le cui camere svolgono più o meno le stesse funzioni.

Con la riforma il Senato perderebbe molti dei suoi poteri: il grosso del potere legislativo finirebbe in mano alla sola Camera dei Deputati. Il Senato cambierebbe anche composizione: sarebbe formato da 74 consiglieri regionali nominati dai rispettivi consigli regionali, più 21 sindaci e 5 membri nominati dal presidente della Repubblica. Le modalità esatte di elezione dei nuovi senatori/consiglieri saranno definite in seguito attraverso delle leggi ordinarie: nel “ddl Boschi” è scritto solo che i senatori saranno eletti «in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi». Il Senato quindi avrebbe 100 senatori, 215 in meno rispetto a oggi.

La riforma prevede che il governo abbia bisogno solo della fiducia della Camera dei Deputati. 

Chi è contrario alla riforma teme che in questo modo i futuri governi abbiano troppo potere e l’equilibrio tra governo e Parlamento ne uscirebbe sbilanciato. Chi è a favore della riforma usa più o meno gli stessi argomenti, ma sostenendo che invece è necessario snellire il processo legislativo, evitando che le leggi debbano fare continui passaggi da una camera all’altra – la cosiddetta “navetta” – prima di entrare in vigore.

Il problema principale non è tanto la fine del bicameralismo perfetto. Se il problema era lo snellimento dell’iter legislativo e i costi del Senato, tanto valeva abolirlo del tutto. Invece, con questa riforma, il Senato resta, con compiti minori e diversi, ma resta assieme ai costi.

Il problema principale è l’abolizione delle funzioni del Senato associate alla riforma del sistema elettorale, il cd. Italicum, che tra liste bloccate (i capolista decisi dalle segreterie dei partiti verranno eletti automaticamente) e premio di maggioranza (chi vince le elezioni ottiene il 55% dei seggi e quindi una larghissima maggioranza assoluta) distorce la democrazia.

Con iI premio di maggioranza alla lista avremmo un solo partito proprietario di tutto.

Un premio di maggioranza così alto non esiste in nessun altro paese.

L’iter legislativo per cambiare la Costituzione – ovvero per approvare le leggi costituzionali – è abbastanza complesso: la stessa Costituzione prevede che il suo testo si possa cambiare solo con un ampio consenso parlamentare e con tempi che permettano di analizzare le conseguenze del cambiamento.

Per ogni legge costituzionale è prevista prima un’approvazione in “prima lettura” da entrambe le camere del Parlamento. Il testo approvato dalle due camere deve essere identico: quindi se un testo viene approvato dalla Camera dei Deputati e poi il Senato lo approva ma con delle modifiche, allora deve tornare alla Camera dei Deputati per un’altra approvazione. Dopo la “prima lettura” devono trascorrere tre mesi prima che il testo torni a tutte e due le camere per essere nuovamente approvato, sempre nella stessa forma e con una maggioranza di due terzi dei componenti di ciascuna camera. Se viene approvato con una maggioranza inferiore può comunque entrare in vigore, ma deve prima essere confermato con un referendum – chiamato referendum confermativo – senza quorum, cioè senza un numero minimo di votanti che debba partecipare alla votazione.

Il referendum

Come prevede l’articolo 138 della Costituzione, la riforma approvata senza la maggioranza dei due terzi in seconda lettura va sottoposta a un referendum entro tre mesi dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Non c’è quorum: la legge viene promulgata se i voti favorevoli superano quelli sfavorevoli.

Ci sono stati solo due referendum costituzionali nella storia della Repubblica italiana. Il primo, tenuto il 7 ottobre 2001, portò all’approvazione della riforma del Titolo V della Costituzione con il 64,2 per cento di favorevoli; il secondo, tenuto il 25 e 26 giugno 2006, bocciò la riforma della Costituzione promossa dal governo Berlusconi con il 61,3 per cento dei voti.

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Giorgio Napolitano.jpg“Sosterrò la conferma della legge di riforma approvata dal Parlamento e mi auguro che le opposte parti politiche si confrontino sul referendum nella sua oggettività. Cioè pronunciandosi sul merito della riforma, della sua necessità e della sua – a mio avviso – indilazionabilità, e non facendone materia di scontri politici personalizzati”. Lo afferma il Presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano in un’intervista al Corriere della Sera in cui ricorda che il referendum confermativo “è previsto dalla Costituzione”, e dunque “non è il governo in quanto tale che lo promuove”.

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2011 Italian referendumsAddio coalizioni – Il premio di maggioranza alla lista sancisce la fine definitiva dello schema basato sulle coalizioni a cui ci siamo abituati negli ultimi vent’anni. Sarà la lista che arriva prima a ottenere la maggioranza assoluta dei seggi (al primo o al secondo turno) e a governare da sola. Attenzione però a non confondere la lista con il partito: com’è spesso successo nel passato, sarà sufficiente che due o più partiti si uniscano in una sola lista per aggirare il problema. È comunque una garanzia di solidità, visto che una lista ha un solo leader, un solo programma, un solo simbolo e un solo gruppo parlamentare. Insomma, la rottura è più difficile.

Capolista bloccato e preferenze – Nei 100 collegi i partiti che otterranno i voti necessari eleggeranno automaticamente il loro capolista, che è bloccato e deciso quindi dal partito. A partire dal secondo eletto funzioneranno le preferenze: sarà possibile segnalare due nomi sulla scheda elettorale, con alternanza di genere.

Doppio turno – Se al primo turno la lista più votata supera il 40%, conquista 340 seggi, ovvero il 55% dei seggi e quindi una agevole maggioranza assoluta. Se nessun partito o lista dovesse raggiungere quota 40, si andrà al secondo turno tra i partiti più votati, chi vince conquista ugualmente 340 seggi. Gli altri partiti si spartiscono i restanti 290 seggi proporzionalmente ai voti conquistati.

Soglie di sbarramento – Al 3% per tutti i partiti, mentre nella prima versione era del 12% per le coalizioni, dell’8% per i partiti non coalizzati, del 4% per i partiti coalizzati. Il premio di maggioranza alla lista fa piazza pulita di tutto questo, con una soglia di sbarramento sola, al 3%.